bisogna
essere molto felici, gongolare dalla gioia,
andare
in estasi o uscire di sé dalla contentezza.
Stati
d’animo all’apparenza equivalenti
che
nascondono in realtà infinite sfumature
di
piacere, soddisfazione, beatitudine e godimento.
Ascetiche
o epicuree, laiche o religiose, terrene o celesti,
potrebbero
far assurgere le giuggiole a frutto della riconciliazione
per la
riscoperta di radici comuni fra atei, agnostici e credenti.
Bulbi
intrecciati che si nutrono
non di
privazioni e sacrifici
bensì
di benessere e appagamento.
“Un’utopia
bella e buona!”, mi direte.
“Forse,
o forse no…”, potrei rispondervi.
Parte
da qui, da queste potenzialità infinite, la ricerca di una ricetta
per
aiutarne uno e salvarli tutti.
Ma
nessuna impresa è concepibile se non ci si prospetta
una
meta agognata, una destinazione ambita o un traguardo disagevole.
Preludio.
In
realtà la ricetta del brodo di giuggiole non esiste più.
La
pianta, proveniente dall’Asia centrale, diffusa particolarmente in veneto,
potrebbe
passare in un batter d’occhio dalla dimenticanza all’estinzione.
Tre
anni fa, mentre cammino per il mio sentiero consueto,
mi
accorgo che una pianta alta circa tre metri,
tutta
irta di spine peggio di un cespuglio di more,
produce
un frutto ovaleggiante che sembra un incrocio
fra un
cappero e un’oliva gigante.
Il mio
primo incontro ravvicinato con un giuggiolo.
Intercetto
gran parte della produzione di quell’anno.
E’
ottobre, passiamo più di dieci giorni con la consorte a
pulire,
lavare, bollire, disossare, spremere, mescolare ad alcool,
lasciare
in infusione, filtrare, zuccherare, micro-filtrare
e
infine separare quantità infinitesimali di essenza,
dosi
appena più consistenti di una specie di marmellata
e
quantità industriali di residui.
Assaggiamo
questo nettare –buona l’essenza, ottima la quasi marmellata-
niente
affatto convinti di aver riscoperto l’antica ricetta.
Anche
perché, avendo effettuato decine di tentativi e operato altrettante variazioni
estemporanee prima di giungere al risultato finale,
non
saremmo minimamente in grado di riprodurla.
Conserviamo
gelosamente un barattolino di quasi marmellata
che,
essendo ottima, nominiamo seduta stante ‘brodo di giuggiole’.
Lo
portiamo con noi ad un incontro familiare sull’appennino parmense e,
poco
prima di sederci a tavola per iniziare il pranzo che sarebbe terminato
gustando
quel tanto decantato nettare degli dei, il vasetto appoggiato sul tavolo per
fare bella mostra di sé cade e si frantuma in mille pezzi.
Morale.
Il
mitico brodo di giuggiole sarebbe rimasto tale
agli
occhi di tutti i commensali.
Sconfortato
dalla disavventura patita, l’anno successivo metto gli occhi su di una piantina
di circa un metro che affianca la pianta madre.
Ma è ancora
troppo grossa e di fianco a questa individuo un ‘piccolo’ di giuggiolo.
A
febbraio, periodo ideale per queste incombenze, convinco il contadino a darmelo
per trapiantarlo.
Per
fare il brodo di giuggiole, ci vogliono le giuggiole.
Ma per
avere le giuggiole, ci vuole un giuggiolo.
Decido
così, dopo molto arrovellarmi, di iniziare la mia crociata personale
pur non
sapendo se arriverò a fondare un movimento “Save the Jujube!”
Ad
aprile l’avventura era già terminata. Il ‘piccolo’ di giuggiolo,
due
stecchi secchi piantati in un grande vaso sul poggiolo,
aveva
smesso di respirare clorofilla.
Sono
passati due anni prima che un altro ‘piccolo’ abbia raggiunto un minimo di
consistenza.
Dopo
averlo ‘prenotato’ presso il contadino paziente,
sempre a
febbraio ritento l’impresa.
Grande
vaso, terra ricca, pollice verde
(non il
mio naturalmente, bensì quello della consorte)
e il
miracolo, questa volta, sembra sul punto di realizzarsi.
Dopo
marzo, aprile, e quindi maggio e ora giugno,
l’altezza
della piantina è già il doppio della misura del vaso
e le
foglioline verdi oltrepassano i bordi in ogni direzione.
Le
spine pungenti, così caratteristiche, sono sempre lì ma non si vedono quasi.
Piccole
palline verdi cominciano a crescere alla base di alcune delle foglie,
all’incirca
una per rametto.
Diventeranno
già delle mini giuggiole in ottobre o bisognerà aspettare l’anno prossimo?
Non
importa.
Siedo
sul poggiolo, guardo il giuggiolo che cresce,
annuso
una mentuccia appena raccolta e, mentre scrivo, sono sereno.
Anche
se non posso fare a meno di pensare
che se
riuscissi a trovare
una
ricetta, una formula o una idea guida
manderei
in brodo di giuggiole l’intero universo.
“Un’utopia
bella e buona!”
“Forse,
o forse no…”
Ps: un altro paio d'anni sono passati. Di giuggiole nemmeno l'ombra, ma la pianta cresce ed ha abbondantemente superato il metro d'altezza. Chissà che prima o poi non si possa ritentare l'avventura.
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