venerdì 28 giugno 2013

Un pensiero per Mario


E' passato un anno da quando Mario, dopo l'infarto che l'ha colpito, giace nel suo letto senza riuscire a comunicare con i suoi cari e con il mondo che lo circonda. Era il 28 giugno 2012,  e dopo un mese lo ricordavo con queste parole che qui ripropongo per mantenere la promessa di 'scrivere di lui e di quanto ci manchi'.






28 luglio 2012.

Oggi il mio pensiero, appena svegliato, va a Mario, che navigherà in chissà quali anfratti di lagune a noi sconosciute.
Una vita- non vita difficile anche solo da immaginare che lo tiene aggrappato ad un’esistenza dove i suoi cari sperano l’insperabile ed i suoi amici rievocano mestamente le sue mille competenze e le sue ben note qualità.
Non sono fra le persone a lui più vicine, ma ho imparato a conoscerlo per la sua pacatezza e le attitudini di risolutore di situazioni non facili.
Il tema della formazione e del lavoro in particolare rappresentavano un terreno di sensibilità e di interesse comune che volentieri avrei affrontato in sua compagnia.
Chissà che qualche scheggia dei tanti pensieri a lui rivolti non possa sfiorarlo nell’attesa.
Speriamo che una brezza leggera gli accarezzi l’anima portandogli conforto.
E che dopo aver visitato lui, conforti anche noi, in attesa di sue notizie.
Lo raggiunga comunque il nostro augurio.
Che possa trovare sentieri perduti e passaggi imperscrutabili per tornare a noi.
Ma, soprattutto, che possa giungere alla meta, qualunque essa sia.

Nel frattempo continueremo a scrivere di lui e di quanto ci manchi.

sabato 22 giugno 2013

IL SILENZIO DELL’UOMO CON LA SCHIENA DRITTA (DURAN ADAM)

Ermen Gunduz è un genio. Certo è anche un giovane performer e coreografo turco e questo può averlo  avvantaggiato sul versante della creatività.
Ma nulla toglie al fatto che con il suo semplice ‘stare ritto in piedi’ come gesto corporeo, apparentemente passivo e innocuo ma in realtà potente quanto un maglio d’acciaio, abbia disintegrato la pretesa del governo turco di rispondere alle crescenti proteste con cariche, fumogeni e intrugli urticanti vari.
Se in Avatar il popolo Na’vi  insegna all’essere umano l’importanza e la forza della semplice locuzione ‘Io ti vedo’, Ermen Gunduz ha ricordato a tutti noi, nella sua testimonianza solitaria ma estremamente contagiosa, quanto possa essere sgradito al potere turco, così come a tutti i poteri costituiti che perdono il contatto con la realtà, sentirsi sotto costante osservazione.
“Io vi vedo e quel che fate è sotto i miei occhi” è il messaggio silenzioso e provocante ad un tempo che quell’uomo solitario con la schiena dritta (ormai noto come ‘the standing man’, in turco ‘duran adam’) ha trasmesso efficacemente con il suo solo stare ritto in piedi in piazza Taskim a Istanbul , con lo sguardo rivolto ad un centro culturale dismesso non casualmente intitolato al padre della Patria Kemal Ataturk.
“Noi vi vediamo e quel che fate è sotto gli occhi di tutti” è il messaggio altrettanto silenzioso e rivoluzionario che decine di migliaia di giovani e non più giovani, a Genova, in Italia così come in tutte le piazze del mondo, rimandano non solo al premier turco Recep Tayyip Erdogan ma a tutti i governanti  che si vengano a trovare in condizioni analoghe.
Ma ora che ci penso, ho cambiato idea. Ermen Gunduz, l’uomo che sta ritto in piedi, non è un genio; è un uomo nel senso più nobile del termine, un abitante della Terra che ha riscoperto per noi l’importanza del silenzio come ‘arma sonica’ non violenta.
Nella civiltà dell’immagine spesso tutto avviene in un istante e si consuma altrettanto rapidamente.
Qualche volta quest’istante racchiude un’intuizione folgorante che rimane come scolpita nella pietra.
E dilaga per ogni dove, in un silenzio assordante.

martedì 11 giugno 2013

Una scintilla nel silenzio dell'anima

La mente riavvolge veloce le immagini vicine e lontane.
Vicine perché penetrano nel cuore come solo un coltello affilato sa fare.
Lontane perché quasi sempre collocate dall’altra parte del Mondo, dell’Oceano, del Mar Mediterraneo.

Il 20 dicembre 2010 il venditore ambulante di 28 anni
che si dà fuoco  nella città di Sidi Bouzid perché gli confiscano tutto, gli danno uno schiaffo e gli sputano addosso, è all’origine di un incendio che ha avvolto intere nazioni.
Ma prima di tutto ciò questo gesto ci parla della solitudine, della disperazione e della rabbia che riguardano una persona sola.
Prima che accada l’irreparabile e che gli eventi precipitino, è Mohamed Buazizi ad essere solo ed a sentirsi solo, sacrificando se stesso perché nessuno è stato in grado di vedere e condividere la sua disperazione, aiutandolo a ritrovare un benché minimo barlume di speranza.

Il 28 marzo 2012 accade ancora.
E questa volta tutto si svolge da questa parte del Mondo, dell’Oceano, del Mar Mediterraneo.
Un artigiano di 58 anni, impegnato nel settore edile, scrive alcune lettere perché il suo gesto estremo non rimanga immotivato, posteggia l’auto davanti all’Agenzia delle Entrate di Bologna e si dà fuoco per protestare contro le ingiustizie che ritiene di aver subito.
E’ appena successo e non sappiamo di quale contagio sarà capace.
Ma prima di tutto ciò, qualunque scenario si presenti,
intriso di cinica indifferenza o  permeato di partecipe indignazione,
questo gesto ci parla della solitudine, della disperazione e della rabbia che riguardano una persona sola.
Era solo e si sentiva solo, perlomeno nel fronteggiare queste traversie che lo tormentavano.
Nessuna speranza nella scintilla che ha preceduto il fuoco.
La tragedia di un corpo devastato si innesta su di un dramma che gli appartiene e che per ciò stesso non potrà mai essere compreso appieno.

E’ un suicidio, ma non è solo un suicidio.
E’ una protesta, certamente, una protesta estrema.
E’ un messaggio talmente disperato da risultare a tratti difficilmente comprensibile.
E nonostante ciò, non possiamo rispondere con il silenzio delle coscienze ad un gesto maturato nel silenzio dell’anima.
Ciascuno di noi, politico, tecnico o semplice cittadino, è responsabile per sé e per gli altri.
Ognuno di noi è chiamato con le proprie forze, il proprio ingegno, le proprie capacità e le proprie risorse a far sì che le prossime scintille non facciano divampare altrettante torce umane.

Solo così il suo gesto potrà ridare speranza e fiducia anziché diffondere disperazione e sconforto.

10 giugno 2013, ad Ercolano, con Antonio Formicola, il dramma si ripete.

sabato 8 giugno 2013

Un incipit auspicabile


Tutto in un’immagine.
O meglio, in una serie di immagini che si succedono le une alle altre.
Il film della vita, verrebbe da dire, se non suonasse banale, ripetitivo e poco invitante come incipit.

Ogni volta che il sole si alza nel cielo, c’è una speranza di ripresa che guida i nostri passi.
Non quella economica, che gioca a rimpiattino in un Paese che appare stanco e sfiduciato.
E neanche quella morale, che fatica a presentarsi come alternativa credibile alle piccinerie regolate sul breve termine.
Si tratta invece di una ripresa più meccanica; un passo, un pensiero, un incontro dopo l’altro.

Così ripartono i meccanismi.
Ma anche i motori, per riavviarsi, hanno bisogno di una scintilla.

Ecco un’immagine un po’ più umanizzata: una scintilla, nel buio della notte.
Non è un fuoco che divampa e riscalda i cuori intorpiditi.
Non una febbre che preannuncia una crescita repentina e disorientante.
Ma almeno un respiro tiepido che riesca a proiettare lo sguardo oltre i vetri appannati dall’indifferenza.

Ecco, sì, un respiro tiepido forse può andare come immagine.
Per procedere oltre e, come accade di consueto, giungere a sera.
Certi, però, di aver fatto tutto il possibile per rianimare un paziente recalcitrante e riavviare un ciclo vitale che non può tardare oltre.

In un mondo di eccessi dove il troppo caldo e il troppo freddo lasciano il campo solo per farsi sostituire da siccità e grandine, un respiro tiepido è solo un inizio.
Ma può moltiplicarsi e in men che non si dica, contagiare il mondo intero.

Sarebbe un inizio, appunto.

Un incipit auspicabile.

venerdì 7 giugno 2013

Scrivere, nel frattempo, come atto vitale

Scrivere è un fiume che scorre, incessante.
Quando ti immergi nelle sue acque, la vita ti passa accanto producendo increspature appena percettibili o gorghi più accentuati e temibili.
Basta poco, però, e ti senti nuovamente a casa.
Nuotare come un pesce nell’acqua, per chi ha sempre avuto il mare come confine sconfinato non è solamente un modo di dire, ma è un modo per dirlo.

I pensieri scorrono e la mano li insegue docile per catturarne l’essenza.
E’ la stessa mano che fende la superficie bramosa di afferrare
ciò che scorre via senza sosta e finalmente, dopo tanto affannarsi e scarso costrutto, s’abbandona ad una danza dai toni tenui ed intensi ad un tempo, disegnando curve sinuose e inaspettate.
Il corpo la segue, docile e attento, perché nulla di ciò che accada vada perduto.
Nell’acqua si immerge e da lì riemerge senza soluzione di continuità.

La penna che scrive e la mano che danza.
O è la penna che danza e la mano che scrive.
I pensieri inseguono gli sguardi sul mondo e tutto appare immerso in una fitta ed avvolgente coltre di nubi.
Sperare che si diradi è concesso.
Vivere nell’attesa è rinuncia.
Scrivere nel frattempo è vitale.
D’altra parte la mano che desiste è un mondo che scompare.
“Non uno di meno!”, si ode in lontananza.

E l’inchiostro dilaga, con rinnovato vigore. 

giovedì 6 giugno 2013

Una vita in cento battiti

Attendere, muoversi, nutrirsi, crescere,
nascere, accecarsi, piangere, sgambettare, poppare, cagare, dormire,
sorridere, riconoscere, temere, stupirsi,
mangiare, bere, lavarsi, giocare, incontrare,
chiedere, spingere, combattere,
osservare, intristirsi, gioire, parlare, gridare, ascoltare,
nuotare, sentire, bisbigliare,

complottare, trasgredire, colpire, disobbedire,
obbedire, imparare, partecipare,
innamorarsi, ammalarsi, guarire,
tradire, partire, ritornare, vagare, vagabondare,
studiare, baciare, salutare, amoreggiare,
ubriacarsi, guidare, viaggiare,
confidarsi, preoccuparsi, entusiasmarsi, estenuarsi, 
leggere, approfondire, riflettere, pensare,
stancarsi, rifocillarsi, trastullarsi, masturbarsi,
vincere, perdere, pareggiare, gareggiare,
amare, travestirsi, raccontare,
scrivere, appuntarsi, convivere,
spaesarsi, concentrarsi, vestirsi, spogliarsi, addormentarsi,
lavorare, impegnarsi, sperimentarsi,
litigare, riappacificarsi, scoprire, inventare, riposarsi,
riprodursi, sorprendersi, intervenire, tentennare,
costruire, consolidare, rasserenarsi,
consigliare, prepararsi, salutare, morire.


Cento battiti per non dimenticarsi di vivere la vita.

martedì 4 giugno 2013

Stazione Centrale: un incubo a occhi aperti

Lo scenario è da incubo.
Ma anche in un incubo può comparire una scialuppa di salvataggio che ti accolga,
o almeno un appiglio che galleggi.
Il mio salvagente è un posto improvvisamente vuoto nell’unica fila di sedili che la residua misericordia di un progettista minimalista è stato capace di concepire.

Non faccio in tempo a prendere posto che mi accorgo di quanto tanta generosità progettuale sia strettamente finalizzata al bombardamento mediatico di motivi alienanti ed immagini plastificate che fuoriescono in continuazione da quattro mega schermi perfettamente allineati.
Fortunatamente le immagini non si vedono ma i suoni ti trapanano il cervello.
Ricordo un periodo durante il quale schermi analoghi trasmettevano un jingle ripetuto all’infinito e senza alcun apparente significato, che doveva aver sollecitato pensieri distruttivi e tentazioni luddiste in più d’uno, perché poco dopo è stato precipitosamente eliminato.
Qualcuno deve aver ‘agito’ i pensieri di molti.

Decine, centinaia, migliaia di persone affrettano il passo, sostano col naso all’insù o si muovono ondivaghi per giungere a destinazione o, più banalmente, per darsi un tono.
E’ un mondo multicolore.
Dove i bianchi giocano in casa mentre i neri si arroccano in difesa;
i gialli colgono l’attimo con istantanee brucianti mentre i rossi si distinguono a fatica.
Ma quando scopri che i blu ed i verdi non si trovano neanche utilizzando i raggi ultravioletti, cominci a dubitare che tutto ciò abbia un senso.

E allora vedi degli uomini e delle donne; dei bambini e degli anziani; persone basse come nani e giganti prossimi ai due metri; corpi magri e filiformi accanto ad altri grossi e tondi; andature sensuali ed altre con un incedere sgraziato; e così via, nei meandri di una casistica forse meno discriminante della precedente ma sempre in cerca di riscontri oggettivi.

Ad un certo punto, lo scenario cambia.
Affinando uno sguardo orientato alla persona in quanto tale,
valorizzi percezioni, sensazioni e qualità prima trascurate.
E’ come se ciascuno fosse circondato da un’aura diversa.
Come se i singoli esseri umani contassero per le loro specificità e non per le caratteristiche comuni a molti.
Come se i soggetti riacquistassero in pieno il loro diritto di esprimersi liberamente e di essere compresi.
In un mondo, quindi, più comprensibile e condivisibile, più consapevole e vivibile.

“Ma come –mi chiederete- non era uno scenario da incubo?”

Ecco la ricetta per trasformare un incubo in un sogno ad occhi aperti.

lunedì 3 giugno 2013

Il gabbiano

E’ da lungo tempo che non scruto il cielo con occhi diversi alla ricerca di un uccello in picchiata.

Certo, abitando in prossimità di un aeroporto, per di più proteso sul mare, sono sempre attratto dagli aerei che si alzano in volo, o da quelli che atterrano, o cercano di atterrare. Come quella volta che, a causa del forte vento, ne ho seguito uno volteggiare nel cielo e tentare di atterrare per ben quattro volte, prima di rinunciare definitivamente e puntare il muso verso il mare aperto.
Il cielo, che attrae e respinge ad un tempo; che affascina e intimorisce; che illude  e ti lascia, alla fine, con i piedi per terra. Da sempre una costante antitesi della nostra condizione terrena.
Ma oggi, complice il silenzio che dall’esterno si espande fin dentro le viscere, e grazie al passo costante che stabilizza e da’ sicurezza, riesco ad alzare gli occhi al cielo, dove il sole comincia a diffondere i suoi deboli raggi e la luce schiarisce  le nebbie diffuse della notte.
E’ allora che lo vedo, con le grandi ali bianche spiegate al vento, che oggi è una brezza leggera appena percettibile.
Non si protende in alto, verso gli spazi vertiginosi ormai territorio incontrastato dei grandi uccelli meccanici alimentati artificialmente, che si incrociano senza mai salutarsi.
E non si proietta nemmeno in basso, alla ricerca di un punto di non ritorno che gli consenta di trasfigurarsi in cieli paralleli popolati dai ‘giusti fra i giusti’, i grandi uccelli bianco-neve con le piume limpide e lisce che non si scompongono nemmeno se sottoposti a torsioni inimmaginabili.
Volteggia nel cielo senza fare il minimo rumore, vola ad una altezza costante, descrivendo grandi cerchi a geometrie variabili ed imperscrutabili, seguendo pensieri evanescenti, immerso in sentieri impercettibili.
Ho sempre pensato che il ‘campione’ dei gabbiani dovesse assomigliare in tutto e per tutto al gabbiano Jonathan Livingstone.
Ma questo gabbiano non gli assomiglia: credo si tratti di un discendente che ha fatto pace col mondo.
Non lo vuole più abbandonare in cerca di altezze vertiginose o trascendere alla ricerca di qualche dimensione parallela.
Lo vuole semplicemente percorrere e trasmettere un po’ di tranquillità intorno a sé.
“E’ così che va il mondo!”, sembra dire forte del suo sguardo che abbraccia l’orizzonte.
E mare, cielo e terra, tutto intorno, risplendono sereni.


Andare in BRODO DI GIUGGIOLE


Per andare in brodo di giuggiole
bisogna essere molto felici, gongolare dalla gioia,
andare in estasi o uscire di sé dalla contentezza.
Stati d’animo all’apparenza equivalenti
che nascondono in realtà infinite sfumature
di piacere, soddisfazione, beatitudine e godimento.
Ascetiche o epicuree, laiche o religiose, terrene o celesti,
potrebbero far assurgere le giuggiole a frutto della riconciliazione
per la riscoperta di radici comuni fra atei, agnostici e credenti.
Bulbi intrecciati che si nutrono
non di privazioni e sacrifici
bensì di benessere e appagamento.
“Un’utopia bella e buona!”, mi direte.
“Forse, o forse no…”, potrei rispondervi.

Parte da qui, da queste potenzialità infinite, la ricerca di una ricetta
per aiutarne uno e salvarli tutti.
Ma nessuna impresa è concepibile se non ci si prospetta
una meta agognata, una destinazione ambita o un traguardo disagevole.

Preludio.
In realtà la ricetta del brodo di giuggiole non esiste più.
La pianta, proveniente dall’Asia centrale, diffusa particolarmente in veneto,
potrebbe passare in un batter d’occhio dalla dimenticanza all’estinzione.
Tre anni fa, mentre cammino per il mio sentiero consueto,
mi accorgo che una pianta alta circa tre metri,
tutta irta di spine peggio di un cespuglio di more,
produce un frutto ovaleggiante che sembra un incrocio
fra un cappero e un’oliva gigante.
Il mio primo incontro ravvicinato con un giuggiolo.
Intercetto gran parte della produzione di quell’anno.
E’ ottobre, passiamo più di dieci giorni con la consorte a
pulire, lavare, bollire, disossare, spremere, mescolare ad alcool,
lasciare in infusione, filtrare, zuccherare, micro-filtrare
e infine separare quantità infinitesimali di essenza,
dosi appena più consistenti di una specie di marmellata
e quantità industriali di residui.
Assaggiamo questo nettare –buona l’essenza, ottima la quasi marmellata-
niente affatto convinti di aver riscoperto l’antica ricetta.
Anche perché, avendo effettuato decine di tentativi e operato altrettante variazioni estemporanee prima di giungere al risultato finale,
non saremmo minimamente in grado di riprodurla.
Conserviamo gelosamente un barattolino di quasi marmellata
che, essendo ottima, nominiamo seduta stante ‘brodo di giuggiole’.
Lo portiamo con noi ad un incontro familiare sull’appennino parmense e,
poco prima di sederci a tavola per iniziare il pranzo che sarebbe terminato
gustando quel tanto decantato nettare degli dei, il vasetto appoggiato sul tavolo per fare bella mostra di sé cade e si frantuma in mille pezzi.
Morale.
Il mitico brodo di giuggiole sarebbe rimasto tale
agli occhi di tutti i commensali.

Sconfortato dalla disavventura patita, l’anno successivo metto gli occhi su di una piantina di circa un metro che affianca la pianta madre.
Ma è ancora troppo grossa e di fianco a questa individuo un ‘piccolo’ di giuggiolo.
A febbraio, periodo ideale per queste incombenze, convinco il contadino a darmelo per trapiantarlo.
Per fare il brodo di giuggiole, ci vogliono le giuggiole.
Ma per avere le giuggiole, ci vuole un giuggiolo.
Decido così, dopo molto arrovellarmi, di iniziare la mia crociata personale
pur non sapendo se arriverò a fondare un movimento “Save the Jujube!”
Ad aprile l’avventura era già terminata. Il ‘piccolo’ di giuggiolo,
due stecchi secchi piantati in un grande vaso sul poggiolo,
aveva smesso di respirare clorofilla.

Sono passati due anni prima che un altro ‘piccolo’ abbia raggiunto un minimo di consistenza.
Dopo averlo ‘prenotato’ presso il contadino paziente,
sempre a febbraio ritento l’impresa.
Grande vaso, terra ricca, pollice verde
(non il mio naturalmente, bensì quello della consorte)
e il miracolo, questa volta, sembra sul punto di realizzarsi.
Dopo marzo, aprile, e quindi maggio e ora giugno,
l’altezza della piantina è già il doppio della misura del vaso
e le foglioline verdi oltrepassano i bordi in ogni direzione.
Le spine pungenti, così caratteristiche, sono sempre lì ma non si vedono quasi.
Piccole palline verdi cominciano a crescere alla base di alcune delle foglie,
all’incirca una per rametto.
Diventeranno già delle mini giuggiole in ottobre o bisognerà aspettare l’anno prossimo?
Non importa.
Siedo sul poggiolo, guardo il giuggiolo che cresce,
annuso una mentuccia appena raccolta e, mentre scrivo, sono sereno.
Anche se non posso fare a meno di pensare
che se riuscissi a trovare
una ricetta, una formula o una idea guida
manderei in brodo di giuggiole l’intero universo.
“Un’utopia bella e buona!”

“Forse, o forse no…”

Ps: un altro paio d'anni sono passati. Di giuggiole nemmeno l'ombra, ma la pianta cresce ed ha abbondantemente superato il metro d'altezza. Chissà che prima o poi non si possa ritentare l'avventura.

domenica 2 giugno 2013

Nobel per la Pace: il giusto riconoscimento per Malala

“Giovedì 15 gennaio.
La notte è piena del rumore degli spari dell’artiglieria e mi sono svegliata tre volte. Ma visto che non c’era scuola mi sono alzata più tardi alle 10 del mattino. Dopodichè è arrivato il mio amico e abbiamo parlato dei nostri compiti a casa.
Oggi è il 15 gennaio, l’ultimo giorno prima che l’editto dei Talebani entrasse in vigore e il mio amico stava discutendo di compiti a casa come se nulla di straordinario fosse accaduto.
Oggi ho anche letto il diario scritto per la BBC (in Urdu) e pubblicato sul giornale.
A mia madre è piaciuto il mio pseudonimo ‘Gul Makai’ e ha detto a mio padre <Perché non sostituiamo il suo nome con Gul Makai?>
Mi piace questo nome perché il mio vero nome significa ‘Addolorata’.
Mio padre ha detto che alcuni giorni fa qualcuno ha portato la riproduzione stampata di questo diario dicendo quanto fosse incantevole. Mio padre ha detto di aver sorriso ma non avrebbe mai potuto dire che era stato scritto da sua figlia.”

Questa è una delle pagine del diario-blog scritto per la BBC da Malala, studentessa Pakistana che oggi ha 14 anni, ridotta in fin di vita da un attentatore Talebano il 9 ottobre scorso.
La sua colpa: aver documentato il regime dei Talebani Pakistani  e la loro occupazione militare nello Swat District.

E’ sera e dal mio studio guardo la piccola fiamma consumarsi.
La luce che emana, anche se si tratta di un flebile baluginio esposto alla brezza serale, squarcia la notte e testimonia la speranza che tutto il dolore che ha patito non sia vano.
Penso al fatto che la Giustizia Divina dovrebbe incenerire all’istante esecutori e mandanti di simili nefandezze, prima ancora dell’intervento della giustizia terrena che in troppi luoghi del mondo non riesce a compiere il suo corso.
Poi penso a Malala ed al suo coraggio, che non merita di essere ricompensato con pensieri malevoli di alcun tipo.
Penso alla sua voglia di scrivere, documentare e testimoniare, ma soprattutto vivere la sua vita con dignità.
Ed infine mi sono detto: “Non esiste punizione peggiore per quei criminali che far conoscere le sue parole. Forse è facendole circolare in tutto il Mondo che il cerchio potrà essere spezzato.”
Per questo le ho tradotte.
Ed è per questo stesso motivo che, ritengo, ognuno di noi dovrebbe mobilitarsi per sostenere la sua candidatura al Nobel per la Pace.

Sono convinto che lo stesso Alfredo Nobel, se fosse ancora fra noi, approverebbe.