giovedì 31 luglio 2014

Solo costruendo una società del 'noi' possiamo sperare davvero di voltare pagina. LUIGI CIOTTI

LA SPERANZA NON E' IN VENDITA  (Don Luigi Ciotti)


La vicinanza a Don Gallo e, ultimamente, ai suoi scritti, mi ha abituato a non considerare separabili dalla sua storia di vita le vite pulsanti della Comunità di San Benedetto al Porto, che ha fondato più di quarant’anni fa.
Se questo è vero per Don Andrea Gallo, credo lo sia ancor di più per Don Luigi Ciotti nei confronti del Gruppo Abele, che raggiungerà proprio l’anno prossimo i cinquant’anni di vita, e che, come in una gemmazione infinita ha dato vita ad un numero impressionante di iniziative che mobilitano persone e coscienze, creando sigle, organizzazioni e raggruppamenti che spaziano in quasi tutti i campi dell’impegno sociale. Basterebbe citare Animazione Sociale, le Edizioni Gruppo Abele, Narcomafie, l’Università della Strada, Certosa 1515, ma anche le ‘organizzazioni di organizzazioni’ come Libera –Associazioni, nomi e numeri contro le mafie e il C.N.C.A., per avere solo un quadro parziale della galassia di iniziative animate o ispirate direttamente da Ciotti.
Ma è sufficiente ascoltare alcune parole da una recente intervista per comprendere quanto sia radicato il suo invito a credere nel “noi”: “Le cose più belle e più importanti nella vita si fanno con gli altri. Sono gli altri il nostro vero punto di riferimento, cominciando dalle persone più vicine: genitori, amici, insegnanti. E poi ci sono quelli che ancora non conosciamo, che magari ci sembrano ‘diversi’.”
Credo sia per questo che il suo contributo forse più vicino ad una autobiografia, “La speranza non è in vendita” scritto nel 2011, possa essere visto come un inno all’impegno scandito da tre parole: corresponsabilità, per vivere in modo generoso il proprio ruolo di cittadini; continuità, per trasformare l’indignazionione passeggera in sentimento stabile che nutre e si lascia nutrire dall’azione; condivisione, nella certezza che da soli non andiamo da nessuna parte. D’altronde già l’incipit del volume lascia pochi dubbi sulla direzione di impegno a tutto campo che Don Ciotti intende imprimere ai suoi pensieri: “Finchè c’è vita c’è speranza.” Ma, dice subito dopo, “Non c’è speranza, senza speranza di giustizia.” Ed è sempre la ‘speranza’ coniugata alla costante tensione verso una dimensione collettiva ad animare il decimo ed ultimo capitolo del volume. “Speranza  è cominciare ad accorgersi degli altri, prendere coscienza che il mondo e la vita sono realtà plurali.” Ed ancora:  “Oggi per costruire la speranza non basta riprendere in mano quei documenti (le Costituzioni moderne, la Dichiarazione universale dei diritti umani, le Carte dei diritti): bisogna rigenerare il terreno da cui sono nati, sapendo che, abbandonato com’è, darà frutti solo se sapremo coltivarlo a maggior profondità, trasformando lo sperare negli altri e con gli altri in un più coraggioso e fecondo sperare per gli altri.”
Il sentiero che si snoda poi lungo tutto il testo, agile e intenso ad un tempo, assume le vesti di una sorta di decalogo dell’impegno personale e sociale. Parte dalla denuncia delle immense disuguaglianze esistenti che creano marginalità e dipendenze vecchie e nuove, per poi gettare uno sguardo attento sui ‘migranti’ come nuovo paradigma dell’accoglienza. Dice Ciotti: “Porto un esempio. Genova, 15 marzo 2002. Nel campo nomadi, c’era un bambino di 15 anni che frequentava, con passione e intelligenza, anche se in ritardo, la scuola media del quartiere del  campo nomadi. (…) La baracca ha preso fuoco e lui è morto carbonizzato. (…) Lui, nel tema, aveva scritto che il suo sogno era diventare cittadino italiano.”
Ma sono innumerevoli i passaggi che meriterebbero di essere citati, tanto che si potrebbe suggerire l’adozione del volume di Ciotti come testo base di educazione civica e di ‘educazione alla legalità’. Solidarietà e diritti, Democrazia, Costituzione, Mafie, Chiese che ‘interferiscono’, Legalità, Educazione e responsabilità, i passaggi ulteriori che più che completare un cammino, aprono la mente a nuove complessità.
Ed è sul tema delle Mafie che trovo le parole giuste da porre a conclusione di questa breve disamina di un grande contributo al cambiamento che assume le inconsuete forme di una declinazione etica della soggettività.

“Presenti da più di un secolo, le mafie hanno trovato inedite sponde nella ‘società dell’io’ e del narcisismo, nel suo diffuso analfabetismo etico. Solo costruendo una ‘società del noi’ (…) possiamo sperare davvero di voltare pagina. (G.M.)

sabato 19 luglio 2014

18 luglio 2014 - Inaugurata a Genova Piazza Don Andrea Gallo, prete di strada


Ricordo bene la data del 18 luglio 2010: ero con Don Gallo nella ‘sua’ Comunità di San Benedetto al Porto a Genova per comunicargli che la Città di Anghiari e la Libera Università dell’Autobiografia lo avevano premiato per la sua opera autobiografica, e casualmente era proprio il giorno del suo 82° compleanno.

Oggi è il 18 luglio 2014: Don Gallo ci ha lasciati da poco più di un anno, e diverse centinaia di amici, pubbliche autorità ed estimatori si sono appena radunati nella ‘piazza senza nome’ immersa nel Ghetto di Prè, cuore del centro storico di Genova.

Le note delle canzoni di De Andrè accompagnano la celebrazione della Santa Messa, e non è quindi un caso che poco distante, vicino al palco, si intraveda Dori Ghezzi. Diversi i sacerdoti celebranti, fra questi don Federico Rebora, con lui da sempre.

Sul palco, dopo l’introduzione di ‘Megu’ Chionetti della Comunità e sotto la guida dell’amica Peirolero, anima pulsante del Suq di Genova, si avvicendano figure ‘pubbliche’ note che gli erano vicine in vario modo: la stessa Dori Ghezzi, Lilli uno dei pilastri della Comunità, e, anche se non interviene, la responsabile dell’Associazione dei transgender ‘Princesa’ di cui Don Gallo era presidente onorario e la cui sede si affaccia sulla stessa piazza. Prima ancora la parola viene data a diverse autorità istituzionali: il presidente del Consiglio di circoscrizione, il vicepresidente della Regione Liguria, un deputato che legge un  messaggio personale della Presidente della Camera dei Deputati.

Ma, fra queste ultime, è il Sindaco di Genova a trovare l’incipit che credo sarebbe piaciuto molto a Don Gallo: parla della ‘piazza senza nome’ che di lì a breve sarà intitolata a ‘Don Andrea Gallo - prete di strada’, e dice che non è vero che questo è un luogo sconosciuto agli stessi genovesi, perché le persone che la abitano e la frequentano tutti i giorni– in stragrande maggioranza migranti ed irregolari- sono “genovesi come noi, a tutti gli effetti, da qualsiasi Paese del mondo provengano.” Il lungo ed intenso applauso che si alza dalla piazza testimonia l’intensa partecipazione ad una verità niente affatto scontata e per nulla retorica. 

Ed è proprio alzando lo sguardo per cogliere in un unico abbraccio tutta la piazza, che scorgo in alto, alla finestra del penultimo piano del palazzo che fa angolo con uno dei vicoli di accesso, una persona di colore che, quasi sbracciandosi, applaude vigorosamente le parole del Sindaco. Era quella stessa persona che -mi dicono- fino a pochi minuti prima, con le persiane socchiuse, gettava ogni tanto uno sguardo furtivo sulla manifestazione.


A volte, un unico gesto descrive, molto più e molto meglio di tante parole, lo spirito che anima il ricordo di un uomo giusto. In quell’applauso isolato che diventa condivisione corale di una comune fratellanza, sono quasi sicuro ci sia lo zampino di Don Gallo. Dedicargli una piazza è certamente un buon primo passo, sicuramente non l’ultimo. (G.M.)

mercoledì 16 luglio 2014

Ad un anno dalla sua scomparsa continua ad essere ricordato come un 'grande'. L'autobiografia 'non autobiografica' di Gigi Proietti

TUTTO SOMMATO. Qualcosa mi ricordo



“Un’autobiografia? Io? Tutt’al più quattro chiacchiere sul passato, sperando che a qualcuno interessi. Riordinare l’album dei ricordi è un lavoraccio infame.” E più oltre: “No, un’autobiografia proprio no.”
Questo l’incipit che Gigi Proietti ha scelto per il prologo della sua storia di vita.
Chissà come avrà reagito quando gli hanno comunicato che la sua ‘autobiografia non autobiografica’ ha vinto il Premio Città dell’Autobiografia 2014!
Certo si capisce subito, già dalla conclusione del prologo, che ‘la classe non è acqua’, e l’ironia, il garbo, e la simpatia universalmente riconosciute al personaggio pubblico si respirano per tutto il testo; la cui stesura non deve essere stata proprio una passeggiata, se è vero che “Raccontarsi…è difficilissimo. Richiede una buona dose di onestà e un grande sforzo di memoria”; ed anche se “so già che trascurerò molti dettagli, alcuni per riserbo, altri perché li ho persi per strada”, “…le cose davvero importanti non le ho mai dimenticate. Tutto sommato, qualcosa mi ricordo.”
Papà Romano cameriere-portinaio-tuttofare e mamma Giovanna casalinga proveniente da una famiglia di pastori (“Potrei dire di pecorari, ma pastore suona più nobile, sa di Arcadia.”), la sorella maggiore Annamaria e il nonno materno Antonio, pastore e poeta, aprono la descrizione dell’universo familiare dove Gigi Proietti viene alla luce il 2 novembre (“ahimè”, dice lui) del 1940.
Da questo momento in avanti, è tutto un susseguirsi di ricordi che legano la sua figura al palcoscenico: a due anni recita in pubblico nella chiesetta del paese “una poesiola sul bambinello”; a sei anni nell’immediato dopo guerra, sgomberati da una casa pericolante con tutti i mobili ed i vestiti per strada, ha per la prima volta l’impressione di cosa possa essere una scenografia teatrale; pochi anni più tardi, da chierichetto come tanti altri figli della sinistra, nel maldestro tentativo di spegnere un inizio di incendio provocato da un candelabro sull’altare, rimediò il suo primo grande successo comico tentando di soffiare e sparando invece una specie di pernacchia in direzione del Tabernacolo.
Ma è al Liceo Augusto che con la fondazione del primo complesso musicale, i Viscounts, ed il successivo debutto con un vero e proprio ingaggio al Gran Caffè Professionisti per un Veglione di Capodanno, che Luigi Proietti (“cantante dalla voce ritmico-melodica-moderna”, recitava la locandina che l’autore ancora conserva come più antico reperto della propria carriera) iniziò ad esibirsi in tutti i night di Roma. Ed ancora, iscritto a giurisprudenza, sarà l’adesione al Centro Universitario Teatrale, fatta per curiosità più che per un vero e proprio interesse, a rappresentare una vera e propria svolta.
Scorrono via, così, le prime 80 pagine.
Le successive 160 rappresentano una continua scoperta di episodi, riflessioni, racconti ed incontri che accompagnano un successo crescente che per brevità condenserei in tre passaggi artistici cruciali: la sostituzione di Domenico Modugno nello spettacolo “Alleluja, brava gente”; la produzione ed il continuo perfezionamento dello spettacolo “A me gli occhi, please” ed infine le cinque stagioni della serie “Il maresciallo Rocca”.
A scorrere le centinaia di situazioni da lui vissute e citate si capisce perché gli amici lo chiamino “Gigi Progetti”. E proprio uno di questi progetti, proiettato nel futuro, credo possa far comprendere quanto l’essere un po’ restio ad usare il termine ‘autobiografia’ sia profondamente connesso ad una sensibilità biografica ed una particolare attenzione alla qualità della vita degli altri. Dice Proietti: “Vorrei fare ancora tanti spettacoli. Ne ho in mente uno intitolato ‘Cartoni animati’, incentrato sui barboni, le persone che vivono per strada, perché dentro a quegli involti, quei cartonacci, c’è gente che dorme e che, forse, ancora sogna, ci sono dentro la poesia e il dramma della vita.” Una scrittura di sé di ‘normale straordinarietà’ che merita ampiamente il premio che ha ricevuto. (GM) 

mercoledì 2 luglio 2014

Il prete di strada


2 luglio 2014, Piazza del Carmine, Genova.


44 anni dopo l’esodo forzato di Don Andrea Gallo circondato dall’ostracismo delle gerarchie ecclesiali e dal sostegno popolare di chi, forse per la prima volta, riusciva a comprendere le parole di un ‘inviato’ del Signore in terra.


404 giorni dopo che il nostro 'prete di strada', come amava definirsi lui stesso, ha ripercorso all’inverso lo stesso tragitto portato a spalla alternativamente dai suoi ragazzi della Comunità di San Benedetto al Porto e dai portuali genovesi, accompagnato da migliaia e migliaia di compagni di strada di tutte le provenienze, io fra loro.


La piazza è alternativamente riscaldata dalla luce del sole al tramonto, rassicurata dalle note dei musicisti che si alternano sul palco e solcata dalle parole che esprimono vicinanza, stima e impegno.




Ma soprattutto è rincuorata dai ricordi del Don, vissuti attivamente dai suoi ragazzi, condivisi altruisticamente dal alcuni, conservati gelosamente da tutti, nessuno escluso.



E’ questo l’unico grande e concreto miracolo di questo inconsueto ‘prete di strada’: lui attivava risorse interne spesso sconosciute al loro stesso proprietario, riattivava la poco autostima ancora in circolazione, favoriva sviluppi resilienti entro percorsi facilmente votati alla disperazione.


Ed è proprio per questo che la piazza si riempie, la gente ritorna ed il prodigio laico si ripete ancora una volta: come se l’anno scorso fosse tornato non per salutarci un’ultima volta, ma per restare per sempre.



Il murales provvisorio della scalinata vede un bambino triste che dice sconsolato: “Mi hanno rubato il prete.” 


Non so come, ma bisognerà cercare di fare in modo che ‘il prete rubato’ del passato possa essere affiancato dal ‘prete ritrovato’ del recente presente affinché chi rischia di smarrire il proprio sentiero vitale possa trovare un approdo significativo, all’ombra del Carmine.