venerdì 30 dicembre 2016

LA VERGOGNA di BORIS CYRULNIK

LA VERGOGNA

di BORIS CYRULNIK
(Codice Edizioni, 2011)

                                                             Presentazione a cura di Giorgio Macario

Perché, approfondendo il tema della resilienza, parlare di vergogna? E perché merita approfondire il tema della vergogna? Perché se ne parla pochissimo.
Tutt’al più è oggetto di ‘racconti silenziosi’ o discorsi non condivisi che, come ci dice Boris Cyrulnik in uno dei suoi volumi più recenti (Codice Edizioni, 2011) dove la elegge a principale sentimento da analizzare, ciascuno terrà nella profondità della propria intimità.

Una vera e propria storia senza parole, un “basso parlante, che mormora in sottofondo un racconto inconfessabile”.
Niente più di un bisbiglio, un sussurro; ma anche un sentimento che viene messo in scena nel proprio teatro intimo, di cui non si può parlare per timore di quello che potrebbero dirne gli altri. Un destino che forse può essere anche dominato, non solo subito.

Boris Cyrulnik al II Congresso Mondiale sulla Resilienza - Timisoara, 2014

Conoscersi meglio vuol dire comprendere e comprendersi meglio anche esplorando aspetti poco trattati e quindi molto silenziosi, certo, ma non per scelta, più per vergogna.
Il cammino che l’autore intraprende, con questo scritto, appare quasi una discesa in profondità relativamente ad uno specifico aspetto che solo in apparenza appare distante dal contributo autobiografico del suo precedente scritto, ‘Autobiografia di uno spaventapasseri’ (2009, cfr. http://www.giorgiomacario.it/?p=59 ), pure dedicato alle strategie per superare le esperienze traumatiche.

Gli apporti conoscitivi e riflessivi connessi all’evoluzione della vergogna nell’uomo, riportati nel volume, sono innumerevoli: resilienti (‘il sentimento di vergogna che impedisce qualsiasi tentativo di resilienza’), psicologici (‘la psicologia della vergogna’) e  psicoanalitici; narrativi e biografici (il caso di Marcel adottato all’età di 10 anni, che si vergogna nel non saper rispondere agli slanci affettivi della madre adottiva), ma anche culturali e interculturali (‘Una stessa ferita può dunque sperimentare passaggi di genere diverso a seconda della cultura di accoglienza…); sociali, antropologici (‘In altre civiltà scoperte di recente -1951- presso i baruya della Nuova Guinea gli adulteri erano sventrati e il loro fegato strappato messo a seccare su pali piantati nella piazza del villaggio’) ed etnologici (le osservazioni dei comportamenti di Germaine Tillion presso i berberi); etologici e neurobiologici (‘Neurobiologia di una timidezza acquisita’); intersoggettivi (‘Guardami quando ti parlo’ si richiede in maniera perentoria ad un bambino in occidente, mentre ‘in molte altre culture gli adulti percepirebbero l’affrontarsi degli sguardi come sfacciataggine’) e molti altri ancora.

A cena in compagnia di Boris Cyrulnik - Timisoara, 2014

In realtà l’apporto autobiografico sembra respirare sottotraccia in tutti i riferimenti riflessivi, espressi con modalità ‘razionalmente empatiche’ o ‘empaticamente razionali’ che dir si voglia: le riflessioni, le considerazioni, le rappresentazioni, ma anche le sofferenze, le vulnerabilità, i traumi ed ancora le reazioni resilienti, i riscatti, le ri-uscite dalla sofferenza, pur supportate da solidi impianti metodologici ed approfondimenti storico-antropologici e scientifici, appaiono permeate da vissuti ed esperienze personali che si avvertono sconfinate.


L’ammissione finale è, questa sì, scopertamente autobiografica: “La narrazione della mia infanzia mi è un po’ sfuggita…ho reso pubblica una storia che credevo intima”, relativa all’attribuzione della medaglia dei Giusti a Marguerite Lajujie, istitutrice che durante la Seconda Guerra Mondiale si prese cura dell’Autore, mentre i genitori di Cyrulnik morivano durante la deportazione, restituisce una dimensione umana dell’autore di rara limpidezza.
“Dopo la vergogna di essere senza famiglia, di essere stato cacciato dalla società, considerato meno di un uomo, improvvisamente sorprendevo, nello sguardo altrui una curiosità, quasi un’ammirazione che trovavo divertente ed immeritata.
Niente era cambiato nella realtà. Tutto aveva subito una metamorfosi nella loro rappresentazione di questa realtà. E non provavo più vergogna!”

Un percorso dalla vergogna alla fierezza, esente da scorciatoie e ricette semplificanti, che pone un’ulteriore ed importante tessera nel mosaico dell’universo resiliente che Boris Cyrulnik ha contribuito a creare per il progresso dell’umanità.

Pubblicata in Psicologi e Psicologia in Liguria, N. 3 - dicembre 2016  
    


                                                                                               

mercoledì 21 dicembre 2016

A UN METRO DAL PALCO di VINCENZO SPERA

VINCENZO SPERA (con Renato Tortarolo)


A UN METRO DAL PALCO
Autobiografia di un promoter

(Il Nuovo Melangolo, Genova, 2016)

                                                     Presentazione autobiografica di Giorgio Macario

Uno dei motivi per cui mi sento abbastanza ‘vicino’ a Vincenzo Spera è che anche lui, fin da giovane, non si è mai accontentato di occupazioni e lavori del tutto predefiniti,  ben strutturati, già sicuri in partenza. Ci sono sempre state le persone al centro del suo interesse: “migliaia e migliaia di esperienze e rapporti, a volte duraturi, a volte fugaci, ma sempre molto intensi.”


Un secondo motivo è legato al fatto che quando lui era già responsabile dell’organizzazione di concerti sul territorio genovese (e non solo), io ero responsabile di un gruppo di adolescenti, vispi e problematici, che riuscivo a far entrare ad ascoltare musica a prezzi, diciamo così, di favore. 


Vincenzo, infatti, è sempre stato sensibile alla solidarietà: lui si domanda infatti “se la musica, rock o leggera, nata per protestare o cambiare il corso delle cose abbia anche obblighi morali” e si dà una risposta positiva citando diverse mobilitazioni fra gli organizzatori di concerti, dall’alluvione a Genova al terremoto in Abruzzo  ed a quello in Emilia Romagna; ma quello che posso assicurare è che la sua sensibilità era tale anche quando non era così conosciuto come oggi.


D’altra parte, a conferma di ciò, basta scorrere alcune delle lusinghiere considerazioni danategli da un gran numero di artisti che, tramite lui, si sono esibiti: “Vincenzo (...) carattere forte e risoluto che però non ha impedito alla sua anima di rivelarsi.” (Franco Battiato); “Tu (...) ami la musica e i musicanti. E li metti anche in scena.” (Francesco De Gregori); “Vincenzo non ha mai fatto distinzioni, per lui gli artisti in quanto tali, indipendentemente dal nome, meritano il rispetto e la giusta accoglienza.” (Beppe Barra); “Vincenzo (...) era spinto da grande passione. Aveva ed ha grande rispetto e amore per la musica e quindi per tutti quelli che la fanno.” (Edoardo Bennato); e così di seguito da Conte a Guccini, da Ligabue a Beppe Grillo.

Ma cercando di dare un nome a questa sua ‘Autobiografia di un promoter’, la definirei una ‘autobiografia professionale’ di vita vissuta, non certo asetticamente rivolta a celebrare i propri successi occultando le possibili zone grigie.


E così le centinaia di concerti organizzati (33 pagine fitte cronologicamente elencate in fondo al volume) con moltissimi cantanti italiani (a partire dai suo ‘testimonials’) e star della musica internazionale  (da Joan Baez ad Eric Clapton, da Frank Zappa a Peter Gabriel, dai Rolling Stones a Ella Fitzgerald) alla presenza di milioni di spettatori, non sono che un pretesto per la narrazione di aneddoti che contribuiscono ad umanizzare vizi e virtù degli artisti incontrati, accompagnati ed assistiti nelle loro esibizioni, realizzate a volte con accorgimenti e soluzioni originali ai limiti delle umane possibilità.  Perchè, come afferma David Zard in una testimonianza che ‘vale doppio’ perchè fatta da un collega di Vincenzo fra i più affermati in Italia, “Vincenzo era un ragazzo entusiasta che pur senza molti mezzi finanziari voleva che a Genova venissero i più grandi artisti del mondo dai Rolling Stones ai Pink Floyd, era testardo (...) Il suo atteggiamento mi ha sempre incantato ed alla fine mi convinceva a fare un concerto a Genova piuttosto che in un altra città.”


Che si sappia, quindi, a chi dobbiamo, in gran parte, la realizzazione di eventi nazionali e internazionali in quel di Genova. Compreso un concerto al quale ho preso parte personalmente e che non si è trasformato in tragedia -apprendo adesso- proprio per la capacità di Spera/organizzatore di trovare soluzioni originali  e gestire l’emergenza in frangenti altamente problematici. Racconta infatti Spera: “L’anno in cui al Palasport organizzai lo spettacolo di Eric Clapton non esisteva ancora una commissione di vigilanza che ti dice quanta gente potrai ospitare in un certo posto. Solo a Milano avevamo venduto più di 17 mila biglietti, al Palasport si presentarono in 30 mila. Troppi. (...) Poteva finire male (...) Così proposi al funzionario in servizio di fare un grande cordone fra quelli che avevano il biglietto e quelli senza. In quel modo riuscimmo a filtrare quasi diecimila persone. (...) Alla fine la folla salì a quarantamila persone.” Il 3 maggio del 1983 io ero lì, a Piazzale Kennedy, in compagnia della mia futura consorte, pigiato come mai mi era capitato in una folla di migliaia di persone. Ad un certo punto -la mia ‘stazza’ me lo consentiva- ho irrigidito i muscoli del corpo per non ondeggiare nella calca e lasciare un minimo di spazio per respirare a me ed a Loriana. Finchè, molto lentamente, si è riusciti a defluire ed infine ad entrare nel Palazzetto dello sport. Ma non so quanto avrei resistito, e come me e più di me, molti altri. Del concerto ho un vago ricordo, in particolare della bravura di Clapton, ma quella calca me la ricordo nitidamente. E, grazie a questa autobiografia, oggi so anche a chi dobbiamo lo scampato pericolo.  Grazie Vincenzo, anche per questo.

domenica 18 dicembre 2016

INGRATITUDINE di DUCCIO DEMETRIO

DUCCIO DEMETRIO


INGRATITUDINE - La memoria breve della riconoscenza

(Raffaello Cortina Editore, Milano, 2016)

Presentazione  a cura di GIORGIO MACARIO   
                               
                                                               A Giotto, perchè anche negli occhi del tuo
                                                                cane puoi sentire la voce della gratitudine.



Ingratitudine non è desiderio d’oblio, ma è disincanto, supponenza, dominio, complicità, arroganza, tradimento, smarrimento, ladrocinio, avarizia e menzogna. 
Questo il fil rouge che Duccio Demetrio mette al centro della sua esplorazione che si muove fra i due poli dell’ingratitudine e della riconoscenza, concedendo alla prima le luci della ribalta e stemperando la seconda entro tracce mnestiche sfuggenti.
E se “l’ingratitudine -prima o poi- ci visita tutti, la posta in gioco è quanto d’essa siamo riusciti a volgere in generosa gratitudine, iniziandoci allo splendore della riconoscenza.” 
Basterebbe questo  a tratteggiare il cammino che l’autore offre al lettore: un invito, sempre e comunque “a conoscerci meglio, per riscoprire le gratitudini altrui che abbiamo dimenticato e mai onorato.” Il richiamo autobiografico è -ça va sans dire- pervasivo e l’autore fa seguire alla considerazione ‘sempre l’ingratitudine ci ferisce e umilia’ un percorso che si avvia ‘con l’amaro in bocca’, disseppellendo i ricordi delle esperienze di ingratitudine, e termina con il ‘saper chiedere scusa’, che richiama un ciclo di redenzione (colpa-pentimento-espiazione-riscatto) rimanendo però immerso nella convinzione laica di una incancellabilità della colpa e della irreversibilità del tempo.

Ciascuno è invitato, in chiusura del volume, a ricercare i possibili nessi fra l’idea di ingratitudine che si è costruita nel tempo e la propria storia di vita; e proprio per accompagnare questo tragitto  non semplice vengono rintracciati possibili riferimenti al tema come step intermedi di un percorso certamente originale che l’autore costruisce su di un tema ad un tempo molto citato e pochissimo esplorato, come  è capitato nel recente passato per il tema ‘La vergogna’ oggetto di un interessante saggio di Boris Cyrulnik.

Gli spunti-approfondimenti tracciati vanno dall’ingratitudine come ‘grande vizio’ in Cuore di Edmondo De Amicis e nel Pinocchio di Collodi, alle ‘grandi’ ingratitudini, inquietanti e minacciose, cui fanno da corollario le ‘piccole’ ingratitudini, quotidiane e casalinghe, ma non meno perniciose perchè quasi invisibili e foriere della scomparsa di cure e tutele nei confronti degli altri. 
Si passa poi ad un registro più filosofico, con il quale, fra l’altro, vengono esplorati nella loro sconcertante attualità i quattro volti dell’ingratitudine proposti da Seneca (chi nega di essere stato aiutato in alcun modo, chi finge mentendo a se stesso, chi contraccambia sconfessando al contempo il prossimo e chi dimentica offendendo la memoria), nonchè l’evoluzione dell’ingratitudine nei miti, nelle tragedie e nelle commedie. 
Infine, una trilogia composta dai linguaggi del ringraziamento, dall’eros della gratitudine e dalla riconoscenza come deciso superamento della gratitudine, completa l’analisi con uno sguardo indagatore che  “si eleva e ci eleva verso ‘altro’”.

In conclusione, nonostante l’ingratitudine del titolo -come ci dice lo stesso autore- richiami le ‘passioni tristi’ introdotte da Miguel Benasayag in un testo ormai divenuto un classico, il sapiente ed intenso intreccio che Demetrio ha saputo costruire su di un tema potenzialmente sgradevole, appare molto più orientato alla costruzione di quelle ‘passioni gioiose’ che lo stesso Benasayag, nei suoi scritti successivi, ha indicato come fondamentali per una crescita dei singoli entro comunità solidali
Un intreccio che non può fare a meno della riconoscenza perchè questa -ci dice ancora Demetrio- “come presa di coscienza del senso del nostro essere stati gettati nella vita, è il tentativo estremo di ri-creare ciò che l’ingratitudine infrange, generando strappi non suturabili quando si tratti di ferite che travalicano le storie delle singole vite.” 
Nel tentativo di contrapporre a rotture dirompenti, attitudini ricompositive.              

mercoledì 2 novembre 2016

AUTOBIOGRAFIA di Gerolamo Cardano - Alcune note biografiche e passaggi tratti dalla Prefazione

AUTOBIOGRAFIA  di Gerolamo Cardano

(Universale Einaudi, 1945 - a cura di Paola Franchetti)

Gerolamo Cardano nacque a Pavia il 24 settembre 1501 da Clara Micheri e da Fazio Cardano, giureconsulto insigne e cultore di matematica, che contrassero matrimonio solo nel 1524, pochi mesi prima della morte di Fazio. Nel 1520 Gerolamo Cardano comincia a Pavia gli studi universitari, che, interrotti nel 1523 a causa della guerra, termina nel 1526 a Padova ottenendo la laurea in medicina. Inizia quindi la carriera di medico a Saccolongo (Padova). Nel 1539, durante un breve soggiorno a Milano, fa un primo tentativo di essere ammesso nel Collegio dei medici ma viene respinto perchè, secondo lo statuto, gli illegittimi non potevano essere accolti neppure se legittimati per il successivo matrimonio dei genitori. (...) Tornato a Milano nel novembre del 1535 ottiene l'insegnamento della matematica nelle scuole Piattine e l'anno seguente, in seguito a nuove insistenze, è ammesso nel collegio dei medici, ma in una nuova categoria, appositamente istituita, di soci che potevano esercitare la professione, ma non godevano di tutti i diritti degli altri iscritti. (...) Nel medesimo anno (1539), mentre attende alla pubblicazione della 'Pratica Arithmeticae' ha notizia che il matematico bresciano Niccolò Tartaglia aveva trovato la risoluzione delle equazioni di terzo grado. (...) Il Cardano nella 'Ars Magna' (1545) pubblica la risoluzione.(...) Nel 1543 il Cardano accetta la cattedra di medicina e insegna il primo anno a Milano e dopo a Pavia dove rimane fino al 1551.Nel 1552 si reca in Scozia per curare John Hamilton, Arcivescovo di Edimburgo. (...) Rattristato e amareggiato per la morte del figlio (giustiziato in carcere nel 1560 per aver avvelenato la moglie) sollecita una cattedra all'Università di Bologna e, ottenutala, i si trasferisce nel 1562. Nell'ottobre del 1570 è incarcerato e processato dal Tribunale dell' Inquisizione e nel settembre dell'anno successivo si stabilisce a Roma, dove muore il 21 settembre del 1576.


Dalla Prefazione:
"A settantaquattro anni compiuti Gerolamo Cardano, il medico che si era soffermato pensoso al letto di pontefici e principi, il matematico le cui scoperte avevano richiamato l'attenzione di tutto il mondo scientifico contemporaneo, l'astrologo i cui oroscopi erano stati ovunque ricercati e discussi, si accinge a scrivere il 'De propria vita'. A por mano a quest'opera lo indusse forse il desiderio di perpetuare il suo nome? (...) Un'altra dunque dev'essere la ragione che indusse il Cardano a comporre il 'De vita propria': ed essa ci aiuterà a comprendere alcune delle caratteristiche di questo originale documento. (...)
Per quel che riguarda la vita professionale il Cardano poteva ritenersi soddisfatto: era apprezzato e onorato , tanto che il Senato di Bologna gli conferiva, in segno di stima, la cittadinanza onoraria. (...)
Ed ecco che fra le vittime di questo periodo che segna l'apogeo della controriforma, troviamo anche Gerolamo Cardano. (...) Molti dei contemporanei lo tacciano di eresia e ne citano come prova principale quella di aver osato trarre l'oroscopo di Gesù Cristo, attribuendone la divina missione all'influsso degli astri. (...)
Ecco dunque cos'è il 'De vita propria': non un'autobiografia, nella precisa accezione del termine, ma un'apologia, e più precisamente un'apologia rivolta al pontefice (Gregorio XIII, subentrato a Pio V, ndc) per discolparsi delle accuse mossegli dal Tribunale dell'Inquisizione, con la segreta speranza di poter anche riacquistare la libertà di insegnare e di pubblicare. (...)

* * *

L'autobiografia del Cardano, a differenza di quella del Cellini ('La vita', scritta fra il 1558 e il 1562, ma stampata nel 1728, ndc) alla quale è stata più volte paragonata, non ne narra le vicende secondo l'ordine cronologico. Il modello letterario del Cardano è Svetonio (70 - 126 d.c., studioso enciclopedico, fondamentale esponente del genere della biografia, ndc), il quale nel 'De vita Caesarum', dopo aver premesso qualche notizia sui natali e gli antenati dell'imperatore, ne narra la vita e descrive le opere, raggruppandole secondo determinate rubriche. Il Cardano, dopo i primi tre capitoletti (patria e antenati, nascita, particolarità dei genitori) prima di passare all'esame dei singoli aspetti della sua vita sente il bisogno di perfezionare il metodo svetoniano inserendo un breve riassunto della sua esistenza destinato a servir di guida al lettore che, nelle pagine successive, si trova di fronte a dati cronologici non sempre accompagnati dalla indicazione del luogo in cui avveniva il fatto narrato. (...)

* * *

E quello di Gerolamo Cardano è prima di tutto uno spirito del Rinascimento: spirito del Rinascimento per l'atteggiamento che assume di fronte ai fenomeni della natura, quello cioè di spettatore obiettivo che li studia e li esamina freddamente, con occhio di scienziato, sentendosi staccato e superiore ad essi, anche quando questi fenomeni interessano il suo stesso corpo. E spirito del Rinascimento anche per la sua conoscenza della storia e della letteratura classica, che in lui non è pedantesca erudizione, ma qualche cosa di vivo e vicino sicchè i fatti e le opinioni dei Romani e dei Greci vengono citate e discusse come potrebbero esser citati e discussi fatti e opinioni di contemporanei. (...) 'Leonardesca' è stata definita la mente del Cardano: e infatti, (...) l'epiteto è più che giustificato dalla versatilità del suo ingegno."



In sintesi il Cardano è non solo un matematico e un medico, ma anche un astrologo e un filosofo. E' riconosciuto come il fondatore principale della teoria probabilistica, ed a lui si deve anche la parziale invenzione della sospensione cardanica e la riscoperta del giunto cardanico (entrambi, in realtà, inventati in tempi più antichi)



lunedì 31 ottobre 2016

IN MOVIMENTO di OLIVER SACKS

OLIVER SACKS

IN MOVIMENTO

(Adelphi Edizioni, Milano, 2015)

Presentazione autobiografica a cura di GIORGIO MACARIO


 “Soprattutto, però, mi piacevano le moto”. Potrei contrabbandare questa frase come incipit dell’ultimo volume scritto da Oliver Sacks poco prima di morire, verrei però ben presto scoperto. Si tratta in realtà dell’11° riga. Ma queste sei parole hanno rappresentato per me la conferma di una sintonia con un autore che considero un’eccellenza a livello mondiale. Alla stima e gratitudine che ho sempre provato nei suoi confronti per aver saputo raccontare e dare un’anima a storie di vita altrimenti destinate a rimanere confinate nell’ombra e votate all’oblio, che affrontava tramite il loro essere casi clinici e sapeva trasformare in casi letterari,  ho potuto aggiungere una (comune) passione motociclistica che si tramanda di padre in figlio; se il padre di Sacks, infatti aveva “...una Scott Flying Squirrel con un grosso motore raffreddato ad acqua e uno scappamento da urlo”, mio padre fin dai primi mesi di vita mi poggiava sul sellino delle sue moto, l’ultima che ricordo un Guzzi Airone.


 “In movimento” rappresenta un esempio di autobiografia che ripercorre con sincerità e schiettezza l’intero arco della propria vita, senza temere di svelare aspetti di sè anche scomodi, e restituendo nel far ciò una ricchezza di vissuti, esperienze, incontri, racconti e scoperte che faticano ad essere condensati nella storia di una singola esistenza.























Ciascuno potrà cogliere l’occasione di questo ‘scritto di una vita’ per trovare riferimenti, episodi e chiavi di lettura utili a rileggere quanto ha potuto apprezzare, negli anni, della sua copiosa produzione. Nel mio caso il percorso si è snodato da L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello a Risvegli, per transitare da Un antropologo su Marte (il top nella mia personale classifica) a L’isola dei senza colore, e concludersi con Musicofilia.


Che il tema della passione motociclistica percorra tutto il volume lo si intuisce già dalla copertina che lo ritrae, giovane, su di una BMW (sembrerebbe la R60 del periodo Newyorkese) ed in terza di copertina si legge fra l’altro: “Quelle corse in moto, di primo mattino, significavano sentirsi intensamente vivi, sentirsi l’aria sulla faccia e il vento sul corpo, in un modo che solo ai motociclisti è dato di provare.”  Ma i riferimenti al tema, che riguardano in particolare i primi quarant’anni della sua esistenza, abbondano: a 10 anni sapeva riconoscere alla finestra, mentre passavano, almeno 10 marche diverse di moto; da adolescente non aspettava altro che di farsi dare passaggi in moto; e se a 18 anni il primo acquisto è una BSA Bantam due tempi, pochi anni dopo acquistava la sua prima Norton 250 per passare ben presto ad una Norton Dominator 600 ed essere anche presente, pur senza corrervi, al Tourist Trophy dell’Isola di Man del 1960; ancora si possono annotare frequentazioni -scorribande escluse- con gli Hell’s Angels a San Francisco e lunghe ‘cavalcate’ solitarie  dopo il trasferimento a Los Angeles.

 © Henri Cole

Appare però evidente fin dalle prime pagine riguardanti l’adolescenza trascorsa sul suolo inglese, quanto le sue tendenze omosessuali, mai nascoste ma nemmeno esibite, diventino motivo di sofferenza in ambito familiare: la madre, in particolare lo tacciò fin da subito, sulle orme del Levitico, di essere ‘abominevole’, e va altresì tenuto presente che il comportamento omosessuale, nell’Inghilterra di quegli anni, era considerato sì una perversione ma anche un reato perseguibile. I riferimenti ai propri compagni nel corso della sua lunga esistenza non mancano, ma neanche abbondano, e il loro ricordo è sempre composto e tenero: dall’innamoramento giovanile con Richard a quello tormentosamente non consumato con Mel; dal rapporto ‘ambiguo’ con Karl poco dopo i trent’anni fino ad un tardissimo (ben settantasette anni) e inaspettato innamoramento con Bill, che lo accompagnerà fino alla morte.

© Lowell Handler

Sacks è dotato di una curiosità sconfinata, ma come dichiara in più occasioni, è la condizione umana, ed in particolare la malattia, che condensa in sè il massimo interesse. Nella prefazione di uno dei suoi scritti più famosi (L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello) Sacks afferma infatti : “...sono attratto dall’aspetto romanzesco non meno che da quello scientifico, e li vedo continuamente entrambi nella condizione umana, non ultima in quella che è la condizione umana per eccellenza: la malattia...”. E sulla malattia, con un fratello schizofrenico, i problemi con la droga e con l’alcol, la depressione e una prosopagnosia (condizione neurologica che impedisce di riconoscere i volti), oltre a varie altre problematiche sanitarie intercorse con l’avanzare dell’età, aveva quindi un interesse non solo rivolto alle patologie altrui ma anche alle proprie.

Oliver Sacks, circondato da una  intera famiglia di medici, ha avuto fin da subito un destino professionale segnato: diventerà medico, e più precisamente neurologo, ma sceglierà strade e percorsi non certo lineari. Anzitutto gli spostamenti fisici da una città all’altra e da uno Stato all’altro alla ricerca di una propria specializzazione da affinare, di pazienti da curare, di storie da approfondire e di ‘casi clinici’ da raccontare: da Londra a Oxford e a Birmingham, con avventure di alcuni mesi in Israele e in Olanda; dal Canada a San Francisco, da New York a Los Angeles, e comunque negli States che diventeranno la sua patria adottiva.

La schizofrenia e gli altri disturbi affini del cervello e della mente dei suoi pazienti li esplorerà e li affronterà, però, a modo suo. Gli approfondimenti  di situazioni cliniche descritte nel testo sono innumerevoli, spaziano fra le diverse possibili deprivazioni o alterazioni sensoriali della vista, dell’udito e non solo,  e meritano di essere scoperte ed apprezzate con calma nel loro andamento in parte cronologico (connesso ai vari contesti di lavoro succedutisi negli anni) ma anche associativo.


Fra queste, la vicenda connessa alla straordinaria pandemia di encefalite letargica degli anni ’20 che causò innumerevoli sindromi postencefaliche nei sopravvissuti e che verrà narrata nel testo ‘Risvegli’, merita un breve approfondimento perchè particolarmente emblematica e trasversale a gran parte del percorso professionale di Sacks sia in ambito clinico che in ambito narrativo. Cinque milioni le persone colpite dal male in tutto il mondo, con migliaia di morti e con molti ospedali appositamente predisposti che accoglieranno i sopravvissuti in condizioni di ‘coscienza sospesa’ per decenni. La sperimentazione della somministrazione di L-dopa (precursore della dopamina) estesa dai pazienti con la malattia di Parkinson ai suoi pazienti nel Bronx riconosciuti dai sintomi di torpore e immobilismo cronico e aggregati insieme, portarono a ‘risvegli’ spesso entusiasmanti dei pazienti. La lunga sperimentazione e documentazione realizzata dal 1966 diede poi luogo ad una altrettanto complessa gestazione della forma narrativa dei casi, che portò alla pubblicazione del relativo volume nel 1973, non senza battute d’arresto (Faber & Faber nel 1969 rifiutò la pubblicazione dei primi 9 casi clinici di Risvegli!). L’accoglienza iniziale fu sconcertante: entusiastica da parte del pubblico e quasi silente da parte dei colleghi (anche in questo caso con alcune eccezioni, fra queste il grande apprezzamento di A.R. Lurija). Ma il documentario di Duncan Dallas del 1974, la versione teatrale di Harold Pinter, premio Nobel per la Letteratura, realizzata nel 1982 e soprattutto la versione cinematografica del 1990 con Robin Williams e Robert De Niro, unitamente alle continue ristampe del volume nel tempo, gli hanno assicurato un primato difficilmente scalfibile.



Oliver Sacks, un grande anche di fronte alla Regina d’Inghilterra, così descrive i suoi timori nel ricevere nel 2008 l’onoreficenza di Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico: “Avevo un po’ paura di fare qualcosa di spaventoso di fronte alla regina -cose come svenire o mollare un peto-, invece andò tutto bene.” Un filo di ironia disarmante e di sincerità stupefacente che fa da cornice alla sua competenza clinica declinata in senso narrativo.

© Kate Edgar

Pubblicata anche su 'Psicologi e psicologia in Liguria' - n.1 giugno 2017

mercoledì 26 ottobre 2016

DYLAN DOG e TIZIANO SCLAVI - Una storia autobiografica 'dopo un lungo silenzio'

DYLAN DOG e TIZIANO SCLAVI 
 Una storia autobiografica 'dopo un lungo silenzio'

                                                                                    di Giorgio Macario


Sarà che sono sensibile sull’argomento per aver coordinato il mese scorso a Genova l’incontro per la Giornata mondiale di prevenzione del suicidio, dedicato in particolare ai giovani e organizzato proprio da un coordinamento di gruppi per l’Auto-Mutuo-Aiuto, ma aver appreso della presentazione nei prossimi giorni a Lucca Comics di una storia autobiografica scritta, dopo 10 anni di silenzio, da Tiziano Sclavi creatore dell’indagatore dell’incubo Dylan Dog, e che la spinta principale a farlo è stata una sorta di debito di riconoscenza verso gli Alcolisti Anonimi, mi ha molto colpito.

Gli Alcolisti Anonimi sono infatti all’origine della diffusione in tutto il mondo e per qualsiasi tipo di dipendenza, dei gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto, che non sono più, ai giorni nostri, piccole enclave autoreferenziali e un po’ naif, ma rappresentano strumenti di intervento per il benessere sociale che in molti casi si affiancano e sono raccordati con gli stessi gruppi di sostegno e di cura condotti da professionisti. Si tratta di una apertura e coesistenza che ho avuto modo di verificare in molti anni di formazione per gli operatori delle adozioni internazionali, per i quali sono anche stati organizzati seminari appositi in tema proprio sui gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto e su quelli a conduzione professionale.

Ma ritornando al nostro autore, il suo romanzo autobiografico più conosciuto è del 1998 e si intitola ‘Non è successo niente’. Tanto per comprendere come non sia semplice il rapporto dell’autore con le sue produzioni, lui stesso afferma in una recente intervista (La Repubblica, 25.10.2016): “Un tempo quel romanzo per me è stato importante, adesso vorrei che venisse bruciato.” E dopo circa 10 anni di ritiro dalla scrittura ecco scaturire una sceneggiatura di Dylan Dog intitolata non a caso ‘Dopo un lungo silenzio’.

Vi si parla di fantasmi non tanto come presenze terrificanti, quanto come ‘assenze’, e Tiziano Sclavi confessa che, come accade spesso alle persone di una certa età, parla tutte le sere con i propri fantasmi.

Ed a questo tema si connettono strettamente altri due temi, l’alcolismo da un lato e il silenzio dall’altro. Tiziano Sclavi parte in entrambi i casi dal suo vissuto personale. Nel primo caso, per quanto riguarda l’alcolismo affida a questa testimonianza il suo amore e la sua gratitudine per gli Alcolisti Anonimi che lo hanno aiutato a non bere nell’ultimo trentennio, a parte un’unica ‘scivolata’. Nel secondo, il silenzio può ondeggiare fra una ‘solitudine assordante’, provata in passato, e una pace di riposo come quella del bosco in cui abita attualmente. Ma nella storia appena pubblicata rappresenta la “disperazione che può risolversi solo con la morte”.

Sperando che l’ottimismo del lungo percorso di cura e di vita supportato dal sostegno di gruppo possa concedere a Tiziano Sclavi, ed al suo personaggio Dylan Dog, orizzonti meno cupi.

domenica 23 ottobre 2016

CULLE VUOTE E INFANZIA TRASCURATA


CULLE VUOTE E INFANZIA TRASCURATA

                                                                                      di Giorgio Macario

Lo so, sembra una contraddizione in termini.
Se le culle sono vuote, se in Italia i già scarsi poco più di 240.000 nati nei primi sei mesi del 2014 sono scesi a poco più di 235.000 nel 2015 (-2%) e a poco più di 220.000 nel 2016 (-6%), triplicando il trend negativo, se ne dovrebbe dedurre che i bambini sono diventati ‘merce’ preziosa e quindi, in quanto tali, sono particolarmente curati ed accuditi.
Di fatto, così non è. Assistiamo, infatti,  certamente ad una crescente ‘ansietà genitoriale’, una diffusa preoccupazione di non essere in grado di accudire quell’unico figlio che sempre più spesso rappresenta tutto il capitale riproduttivo che mettiamo a disposizione della prosecuzione della razza umana.  

Ed ormai da parecchi anni vengono proposti corsi per fare i genitori, scuole di genitorialità che dovrebbero compensare la ormai totale assenza di ‘istruzioni parentali’ che per secoli sono passate da una generazione all’altra. Ma queste proposte sono un palliativo, perchè la dura realtà dei fatti  è che all’inizio del secolo scorso era considerato normale che una famiglia potesse crescere 8/9 figli (con uno o due di loro che erano destinati a non raggiungere la maggiore età), a metà del secolo scorso era normale avere 4/5 figli e fare del proprio meglio per crescertli dignitosamente, mentre dall’inizio di questo millennio la normalità è avere un figlio unico o rinunciare del tutto ad averne (1,35 figli per coppia è la media atttuale, contro il tasso di mantenimento costante della popolazione che è di 2,1 figli per coppia) e incontrare sempre maggiori difficoltà, quasi come se ci considerassimo analfabeti in ambito genitoriale.

Ma come, si potrebbe osservare, se non c’è mai stato maggiore investimento di denaro per acquistare tutto ciò che è umanamente possibile, fino a saturare la camera del proprio figlio, estendendo questi acquisti nel settore elettronico ed informatico, con una conseguente saturazione anche dello spazio ‘cloud’ (è di pochi giorni fa il via libera dei pediatri americani al possibile utilizzo dei tablet per gli infanti sopra i 18 mesi)? Se non ci sono mai state così tante attività sportive, ricreative, intrattenitive ed integrative rivolte a singoli bambini come in questi ultimi anni? Appunto! 

Dobbiamo prendere atto che una sostanziale trascuratezza è perfettamente compatibile con una sovra-abbondanza di ‘cose’, anzi spesso l’abbondanza di ‘oggetti ed attività compensative’ è funzionale ad una consistente assenza affettivo-relazionale, di sostanza e non di forma.

L’esternalizzazione di questa incapacità ad essere vicini nella sostanza ai nostri figli è dimostrata ancor più dalla assoluta mancanza di fiducia nelle pur indispensabili deleghe educative che qualsiasi genitore deve concedere: in primis quelle alle educatrici/assistenti/insegnanti che operano nella principale agenzia educativa dopo la famiglia, e cioè la scuola. Lo schierarsi sempre e comunque a favore del figlio nei mille contrasti che possono sorgere con le/gli insegnanti, lungi dal rappresentare una corretta azione educativa, mina alla base la credibilità complessiva del sistema educativo adulto agli occhi dei ragazzi. Non si vuole certo enfatizzare lo schierarsi dei genitori del secolo scorso a favore del maestro di turno, sempre e comunque, anche nel caso di qualche ceffone che se impartito lo si presupponeva meritato, bensì che un genitore ‘sufficientemente buono’ – tranne in caso di abusi conclamati- fa crescere il proprio figlio in una rete fiduciaria fra le diverse agenzie educative. Se, invece, difende il figlio costantemente ‘a prescindere’, non gli consente di crescere in una situazione dialettica e mina drasticamente la formazione di una sufficiente autostima adulta.

Ma ritornando alle culle vuote, sappiamo che sono determinate da un combinato di crescente infertilità, differimento di maternità e paternità anche per il costante peggioramento della crescita economica, sfiducia nel futuro. E se fino a poco tempo fa era diffusa la percezione di una sostanziale ripresa demografica legata ai flussi migratori in entrata, è stato ormai appurato che il ben più alto tasso di fertilità delle donne straniere nella loro terra di origine, tende velocemente a scendere nel Paese ospitante fino a livelli prossimi a quelli autoctoni.

Ed allora piuttosto che lanciarsi in campagne (peraltro poco efficaci) volte a riempire le culle rimaste desolatamente vuote, sarebbe meglio prendersi cura dell’infanzia che già c’è; ma occorre farlo intervenendo per favorire la crescita di un rinnovato senso di comunità, contrastare l’isolamento familiare, genitoriale e personale, creando fiducia reciproca fra le varie agenzie educative e progettando politiche di welfare non solo indirizzate agli anziani (che votano) ma sempre più alle giovani generazioni (che se già non votano, lo faranno fra non molto).


Per favorire, usando le parole di un noto psicoanalista argentino, Miguel Benasayag, l’affermarsi di un’epoca delle ‘passioni gioiose’ di contro a quest’epoca sempre più di ‘passioni tristi’.

mercoledì 19 ottobre 2016

TRASPARENZA DEL PATTO EDUCATIVO O OPACITA' DELLA CULTURA DEL SOSPETTO?


TRASPARENZA DEL PATTO EDUCATIVO 


O OPACITA' DELLA CULTURA DEL SOSPETTO?


                                                                                                      di Giorgio Macario


Cosa vogliamo insegnare ai nostri figli?
Quale messaggio vogliamo trasmettere loro?
Vogliamo trasporre in ambito educativo  il messaggio attribuito all'Onorevole Giulio Andreotti 'A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca', insegnando loro a non fidarsi di nessuno, men che meno delle persone a cui li affidiamo all'asilo nido e alla scuola materna?
E perchè allora non estendere la proposta dalle elementari alle scuole medie fino alle scuole superiori, in modo da poter allargare il controllo anche ai casi di bullismo sostituendo le buone intenzioni della ‘peer education’ con il ‘peer suspect’?
Sono quindi le educatrici e le assistenti nei nidi e le maestre d'infanzia nelle materne, ma potenzialmente anche i maestri nelle elementari e i professori nelle medie e nelle superiori, ad essere i maggiori sospettati di possibili molestie, vessazioni, maltrattamenti, abusi e quant'altro il repertorio delle nefandezze attuabili in ambito educativo possa produrre?
Perchè è questo il messaggio veicolato dalla recente proposta di legge che mira all'introduzione di telecamere di sorveglianza negli asili nido e nelle scuole materne – estendendo la percezione di ‘minorità’ agli anziani e alle persone disabili ospitate in strutture di accoglienza-, proposta sostenuta dalle firme 'di oltre 50.000 genitori', con l'aggiunta di qualche insegnante, a sentire gli organizzatori, ed in particolare il padre di famiglia che si fa portavoce della proposta sui mass-media.
Nelle intenzioni dei proponenti la visione dei filmati avrebbe dovuto essere a disposizione non solo dei magistrati e delle autorità di Pubblica Sicurezza bensì degli stessi genitori; così facendo si sarebbe potuto soddisfare pienamente l’esigenza (e la voglia) di  controllo dei genitori. Ma a riportare a più miti consigli i proponenti hanno pensato i loro stessi consulenti esperti, che hanno prospettato insuperabili problemi di privacy.
Purtroppo anche la formulazione -mitigata- dell’introduzione delle telecamere ad esclusivo vantaggio della magistratura alimenta ugualmente e contribuisce a diffondere una cultura del sospetto che rende quantomeno opaco il messaggio educativo.
Conosciamo, d’altra parte, la potenza dei messaggi mediatici che portano, ciclicamente, alla ribalta delle news e dei social media alcuni episodi di maltrattamenti fisici e psicologici anche gravi; ben consapevoli del fatto che centinaia di migliaia di altri episodi giornalieri di buon funzionamento educativo non hanno, praticamente mai, diritto di cronaca.



Ed allora, ferma restando la legittimità dell’opera di controllo e sorveglianza che può essere disposta in quella estrema minoranza di situazioni potenzialmente a rischio,  perchè l’occhio ‘meccanico’ della telecamera dovrebbe funzionare meglio dell’occhio ‘biologico’ del genitore? Perchè dobbiamo compromettere il patto educativo che stipuliamo e rinnoviamo quotidianamente con educatori ed insegnanti trasmettendo ai nostri figli il messaggio che non ci fidiamo di nessuno e, in fondo in fondo, neanche della loro capacità di ben-comunicare con noi eventuali problemi che si presentassero?
Le mille preoccupazioni, anche legittime, che ci assillano nella quotidianità dell’esistenza, non possono essere utilizzate come scusante.
La trasparenza del patto educativo che stipuliamo con chi si occupa dei nostri figli impone la pratica di una ragionevole fiducia, che è la stessa che dovrebbe permeare e arricchire la nostra competenza genitoriale.
Affinchè prevalga la trasparenza sull’opacità. E la qualità del patto educativo sulla indeterminatezza della cultura del sospetto.



giovedì 13 ottobre 2016

DARIO FO NEL RICORDO DI LELE LUZZATI (10 Settembre 2006)

(Tratto dal cap. XIX)


LELE, DARIO E FULVIO FO, QUESTO SCONOSCIUTO
di Giorgio Macario 


L’incrocio delle immense produzioni sia di Lele Luzzati che di Dario Fo, dà un unico concreto risultato. Si tratta di “Ho visto un Re”, testo di una famosa canzone di Dario Fo, interpretata da Enzo Jannacci, nel volume con illustrazioni di Lele Luzzati, Gallucci editore, Roma, Ottobre 2006.

Ho visto un re.
Hai visto cosa?
Ho visto un re!
Ah, beh; sì, beh…
Un re che piangeva
seduto sulla sella
piangeva tante lacrime
ma tante che
bagnava anche il cavallo!
Povero re!
E povero anche il cavallo!
Sì, beh; ah, beh…
(…)
Sempre allegri bisogna stare
Che il nostro piangere fa male al re.
Fa male al ricco e al cardinale,
diventan tristi se noi piangiam!”

“Ma come non sai chi è Fulvio Fo?” mi dice Lele giunti alla metà del pomeriggio.
Confesso quasi subito la mia ignoranza, non prima di avergli fatto sapere che conosco naturalmente di fama sia Dario Fo che sua moglie Franca Rame. Ho conosciuto invece personalmente il figlio di Dario, Jacopo perché qualche anno fa abbiamo pranzato insieme ad un amico comune nel suo agriturismo vicino ad Arezzo, che si chiama Alcatraz, dove ricordo in particolare una magnifica piscina ‘a scomparsa’ collocata in mezzo ad un prato. Dovevamo discutere di alcuni progetti di collaborazione con i C.E.M.E.A.[1] toscani.


“ In realtà io ho conosciuto Dario Fo molti anni fa”, mi dice Lele. Ed è su questo primo incontro che concentra le sue osservazioni successive.
“La prima volta che ci siamo conosciuti, c’era una persona che mi aiutava a fare le maschere per il Lea Lebovitch – stiamo quindi parlando della seconda metà degli anni ’40- che mi ha detto se volevo accompagnarlo alla Stazione Brignole per salutare un amico. Quest’amico veniva da Milano in treno e si fermava nella nostra città solo un paio d’ore, perché era di passaggio diretto altrove.”
“Siamo andati e lo abbiamo incontrato dal barbiere della stazione –che è chiuso ormai da molto tempo-, ed era lì che si faceva tagliare i capelli. E’ così che ci siamo conosciuti con Dario Fo.”
“Anche il fratello di Dario, Fulvio Fo, l’ho conosciuto perché legato all’ambiente del teatro. Infatti lui è stato responsabile amministrativo del Teatro di Torino per diversi anni, se ricordo bene; io con il Teatro di Torino ho collaborato molto, e loro hanno una parte consistente di materiali connessi alle mie sceneggiature.[2] Pensa che è una delle persone che mi hanno chiesto di dipingergli tutta la casa a Torino, ma non chiedermi dove, perché non me lo ricordo proprio. D’altra parte non è l’unico cui io abbia dipinto interamente la casa: sicuramente ho lavorato per dipingere sia la casa di Gianni Polidori (lo scenografo di Squarzina, nda) a Roma, sia la stessa casa dell’amico di cui ti parlavo prima, a Genova, che mi aiutava a fare le maschere per il Lea Lebovitch, e tramite il quale ho conosciuto Dario Fo. Ad un certo punto so che suo fratello Fulvio si è trasferito in Sardegna, e da allora non ne so più niente.
Invece con Dario, che in quel periodo era abbastanza conosciuto specie per la radio e in particolare per una esclamazione che faceva “puer nano!” o qualcosa di simile in milanese, siamo rimasti in contatto anche se con lui non ci sono mai state molte occasioni di collaborare a delle produzioni. Infatti, a differenza di molte altre persone con cui ho collaborato, lui si è sempre fatto tutto da solo e –mi dice come ribadendo una ovvietà - c’è da capirlo perché ha frequentato l’Accademia di Brera a Milano e voleva diventare un pittore all’inizio.” In effetti ricordo con Lele che anche negli anni ’70 e ’80 erano suoi quasi tutti i disegni legati agli spettacoli che produceva, ma ancor più i numerosissimi volumi e le trasmissioni televisive di questi ultimi anni vedono la realizzazione da parte sua di centinaia di disegni e illustrazioni.
“Una delle ultime volte –prosegue Lele- l’ho visto per l’allestimento dell’opera ‘Il viaggio a Reims’qui da noi al Carlo Felice[3], e mi è sembrato piuttosto in forma. Abbiamo potuto scambiare qualche parola anche alla mostra allestita per l’occasione nella piccola galleria all’inizio di Vico Duca”.
Dei problemi di salute che Fo ha avuto negli ultimi anni non sa praticamente nulla, e appare francamente stupito e quasi incredulo quando gliene accenno. Ma gli dico subito che non si è mai dato per vinto, che continua a produrre ed interpretare spettacoli con l’aiuto di Franca, quasi a getto continuo. E vedo che, rassicurato dalle mie parole, si tranquillizza.
Lo star male di amici e colleghi, comprensibilmente e in considerazione delle sue stesse condizioni di salute ultimamente un po’ precarie, ha su di lui un effetto depressivo quasi di ‘contagio’, e faccio quindi in modo di non insistere oltre sull’argomento.

Al Premio Nobel per la letteratura assegnato a Dario Fo nel 1997 non si fa neppure cenno, credo quasi certamente non perché Lele volesse sottovalutare la cosa, quanto perché tutte le volte che si parla dei suoi contatti con persone anche conosciutissime, è l’esperienza comune, sono i sentimenti che circolano e anche i piccoli episodi che accadono ad essere importanti, e non tanto le glorie e gli onori suoi o degli altri.
Ma la conclusione di questa breve riflessione è comunque dedicata a Fulvio Fo, che il 17 ottobre 2010, quattro anni dopo queste citazioni di Lele e tre anni dopo la sua scomparsa, è mancato.  Pochi giorni prima ha lasciato scritto queste brevi, ma significative parole:
"Quando arriverà il mio momento, so che seguirò questa schiava- padrona con animo limpido, consapevole di potermene andare serenamente lasciando il mio riflesso, la mia impronta positiva sorridente di gioia illuminata e rassicurante." (Fulvio Fo, ottobre 2010).



[1] Centri di Esercitazione ai Metodi dell’Educazione Attiva. Organizzazione toscana che si è occupata particolarmente, negli anni ’70 ed ’80 e in raccordo con l’omonima organizzazione francese, della formazione degli operatori sulle tematiche del lavoro di gruppo e della comunicazione non verbale.
[2] Crf. i riferimenti a Pietro Crivellaro ed al Centro Studi del Teatro Stabile di Torino, in “Lele Luzzati e ‘il gioco del teatro’”, ivi cap. 11.
[3] “Il viaggio a Reims” – 2002, di G. Rossini. Regia scene e costumi di Dario Fo.