lunedì 31 ottobre 2016

IN MOVIMENTO di OLIVER SACKS

OLIVER SACKS

IN MOVIMENTO

(Adelphi Edizioni, Milano, 2015)

Presentazione autobiografica a cura di GIORGIO MACARIO


 “Soprattutto, però, mi piacevano le moto”. Potrei contrabbandare questa frase come incipit dell’ultimo volume scritto da Oliver Sacks poco prima di morire, verrei però ben presto scoperto. Si tratta in realtà dell’11° riga. Ma queste sei parole hanno rappresentato per me la conferma di una sintonia con un autore che considero un’eccellenza a livello mondiale. Alla stima e gratitudine che ho sempre provato nei suoi confronti per aver saputo raccontare e dare un’anima a storie di vita altrimenti destinate a rimanere confinate nell’ombra e votate all’oblio, che affrontava tramite il loro essere casi clinici e sapeva trasformare in casi letterari,  ho potuto aggiungere una (comune) passione motociclistica che si tramanda di padre in figlio; se il padre di Sacks, infatti aveva “...una Scott Flying Squirrel con un grosso motore raffreddato ad acqua e uno scappamento da urlo”, mio padre fin dai primi mesi di vita mi poggiava sul sellino delle sue moto, l’ultima che ricordo un Guzzi Airone.


 “In movimento” rappresenta un esempio di autobiografia che ripercorre con sincerità e schiettezza l’intero arco della propria vita, senza temere di svelare aspetti di sè anche scomodi, e restituendo nel far ciò una ricchezza di vissuti, esperienze, incontri, racconti e scoperte che faticano ad essere condensati nella storia di una singola esistenza.























Ciascuno potrà cogliere l’occasione di questo ‘scritto di una vita’ per trovare riferimenti, episodi e chiavi di lettura utili a rileggere quanto ha potuto apprezzare, negli anni, della sua copiosa produzione. Nel mio caso il percorso si è snodato da L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello a Risvegli, per transitare da Un antropologo su Marte (il top nella mia personale classifica) a L’isola dei senza colore, e concludersi con Musicofilia.


Che il tema della passione motociclistica percorra tutto il volume lo si intuisce già dalla copertina che lo ritrae, giovane, su di una BMW (sembrerebbe la R60 del periodo Newyorkese) ed in terza di copertina si legge fra l’altro: “Quelle corse in moto, di primo mattino, significavano sentirsi intensamente vivi, sentirsi l’aria sulla faccia e il vento sul corpo, in un modo che solo ai motociclisti è dato di provare.”  Ma i riferimenti al tema, che riguardano in particolare i primi quarant’anni della sua esistenza, abbondano: a 10 anni sapeva riconoscere alla finestra, mentre passavano, almeno 10 marche diverse di moto; da adolescente non aspettava altro che di farsi dare passaggi in moto; e se a 18 anni il primo acquisto è una BSA Bantam due tempi, pochi anni dopo acquistava la sua prima Norton 250 per passare ben presto ad una Norton Dominator 600 ed essere anche presente, pur senza corrervi, al Tourist Trophy dell’Isola di Man del 1960; ancora si possono annotare frequentazioni -scorribande escluse- con gli Hell’s Angels a San Francisco e lunghe ‘cavalcate’ solitarie  dopo il trasferimento a Los Angeles.

 © Henri Cole

Appare però evidente fin dalle prime pagine riguardanti l’adolescenza trascorsa sul suolo inglese, quanto le sue tendenze omosessuali, mai nascoste ma nemmeno esibite, diventino motivo di sofferenza in ambito familiare: la madre, in particolare lo tacciò fin da subito, sulle orme del Levitico, di essere ‘abominevole’, e va altresì tenuto presente che il comportamento omosessuale, nell’Inghilterra di quegli anni, era considerato sì una perversione ma anche un reato perseguibile. I riferimenti ai propri compagni nel corso della sua lunga esistenza non mancano, ma neanche abbondano, e il loro ricordo è sempre composto e tenero: dall’innamoramento giovanile con Richard a quello tormentosamente non consumato con Mel; dal rapporto ‘ambiguo’ con Karl poco dopo i trent’anni fino ad un tardissimo (ben settantasette anni) e inaspettato innamoramento con Bill, che lo accompagnerà fino alla morte.

© Lowell Handler

Sacks è dotato di una curiosità sconfinata, ma come dichiara in più occasioni, è la condizione umana, ed in particolare la malattia, che condensa in sè il massimo interesse. Nella prefazione di uno dei suoi scritti più famosi (L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello) Sacks afferma infatti : “...sono attratto dall’aspetto romanzesco non meno che da quello scientifico, e li vedo continuamente entrambi nella condizione umana, non ultima in quella che è la condizione umana per eccellenza: la malattia...”. E sulla malattia, con un fratello schizofrenico, i problemi con la droga e con l’alcol, la depressione e una prosopagnosia (condizione neurologica che impedisce di riconoscere i volti), oltre a varie altre problematiche sanitarie intercorse con l’avanzare dell’età, aveva quindi un interesse non solo rivolto alle patologie altrui ma anche alle proprie.

Oliver Sacks, circondato da una  intera famiglia di medici, ha avuto fin da subito un destino professionale segnato: diventerà medico, e più precisamente neurologo, ma sceglierà strade e percorsi non certo lineari. Anzitutto gli spostamenti fisici da una città all’altra e da uno Stato all’altro alla ricerca di una propria specializzazione da affinare, di pazienti da curare, di storie da approfondire e di ‘casi clinici’ da raccontare: da Londra a Oxford e a Birmingham, con avventure di alcuni mesi in Israele e in Olanda; dal Canada a San Francisco, da New York a Los Angeles, e comunque negli States che diventeranno la sua patria adottiva.

La schizofrenia e gli altri disturbi affini del cervello e della mente dei suoi pazienti li esplorerà e li affronterà, però, a modo suo. Gli approfondimenti  di situazioni cliniche descritte nel testo sono innumerevoli, spaziano fra le diverse possibili deprivazioni o alterazioni sensoriali della vista, dell’udito e non solo,  e meritano di essere scoperte ed apprezzate con calma nel loro andamento in parte cronologico (connesso ai vari contesti di lavoro succedutisi negli anni) ma anche associativo.


Fra queste, la vicenda connessa alla straordinaria pandemia di encefalite letargica degli anni ’20 che causò innumerevoli sindromi postencefaliche nei sopravvissuti e che verrà narrata nel testo ‘Risvegli’, merita un breve approfondimento perchè particolarmente emblematica e trasversale a gran parte del percorso professionale di Sacks sia in ambito clinico che in ambito narrativo. Cinque milioni le persone colpite dal male in tutto il mondo, con migliaia di morti e con molti ospedali appositamente predisposti che accoglieranno i sopravvissuti in condizioni di ‘coscienza sospesa’ per decenni. La sperimentazione della somministrazione di L-dopa (precursore della dopamina) estesa dai pazienti con la malattia di Parkinson ai suoi pazienti nel Bronx riconosciuti dai sintomi di torpore e immobilismo cronico e aggregati insieme, portarono a ‘risvegli’ spesso entusiasmanti dei pazienti. La lunga sperimentazione e documentazione realizzata dal 1966 diede poi luogo ad una altrettanto complessa gestazione della forma narrativa dei casi, che portò alla pubblicazione del relativo volume nel 1973, non senza battute d’arresto (Faber & Faber nel 1969 rifiutò la pubblicazione dei primi 9 casi clinici di Risvegli!). L’accoglienza iniziale fu sconcertante: entusiastica da parte del pubblico e quasi silente da parte dei colleghi (anche in questo caso con alcune eccezioni, fra queste il grande apprezzamento di A.R. Lurija). Ma il documentario di Duncan Dallas del 1974, la versione teatrale di Harold Pinter, premio Nobel per la Letteratura, realizzata nel 1982 e soprattutto la versione cinematografica del 1990 con Robin Williams e Robert De Niro, unitamente alle continue ristampe del volume nel tempo, gli hanno assicurato un primato difficilmente scalfibile.



Oliver Sacks, un grande anche di fronte alla Regina d’Inghilterra, così descrive i suoi timori nel ricevere nel 2008 l’onoreficenza di Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico: “Avevo un po’ paura di fare qualcosa di spaventoso di fronte alla regina -cose come svenire o mollare un peto-, invece andò tutto bene.” Un filo di ironia disarmante e di sincerità stupefacente che fa da cornice alla sua competenza clinica declinata in senso narrativo.

© Kate Edgar

Pubblicata anche su 'Psicologi e psicologia in Liguria' - n.1 giugno 2017

mercoledì 26 ottobre 2016

DYLAN DOG e TIZIANO SCLAVI - Una storia autobiografica 'dopo un lungo silenzio'

DYLAN DOG e TIZIANO SCLAVI 
 Una storia autobiografica 'dopo un lungo silenzio'

                                                                                    di Giorgio Macario


Sarà che sono sensibile sull’argomento per aver coordinato il mese scorso a Genova l’incontro per la Giornata mondiale di prevenzione del suicidio, dedicato in particolare ai giovani e organizzato proprio da un coordinamento di gruppi per l’Auto-Mutuo-Aiuto, ma aver appreso della presentazione nei prossimi giorni a Lucca Comics di una storia autobiografica scritta, dopo 10 anni di silenzio, da Tiziano Sclavi creatore dell’indagatore dell’incubo Dylan Dog, e che la spinta principale a farlo è stata una sorta di debito di riconoscenza verso gli Alcolisti Anonimi, mi ha molto colpito.

Gli Alcolisti Anonimi sono infatti all’origine della diffusione in tutto il mondo e per qualsiasi tipo di dipendenza, dei gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto, che non sono più, ai giorni nostri, piccole enclave autoreferenziali e un po’ naif, ma rappresentano strumenti di intervento per il benessere sociale che in molti casi si affiancano e sono raccordati con gli stessi gruppi di sostegno e di cura condotti da professionisti. Si tratta di una apertura e coesistenza che ho avuto modo di verificare in molti anni di formazione per gli operatori delle adozioni internazionali, per i quali sono anche stati organizzati seminari appositi in tema proprio sui gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto e su quelli a conduzione professionale.

Ma ritornando al nostro autore, il suo romanzo autobiografico più conosciuto è del 1998 e si intitola ‘Non è successo niente’. Tanto per comprendere come non sia semplice il rapporto dell’autore con le sue produzioni, lui stesso afferma in una recente intervista (La Repubblica, 25.10.2016): “Un tempo quel romanzo per me è stato importante, adesso vorrei che venisse bruciato.” E dopo circa 10 anni di ritiro dalla scrittura ecco scaturire una sceneggiatura di Dylan Dog intitolata non a caso ‘Dopo un lungo silenzio’.

Vi si parla di fantasmi non tanto come presenze terrificanti, quanto come ‘assenze’, e Tiziano Sclavi confessa che, come accade spesso alle persone di una certa età, parla tutte le sere con i propri fantasmi.

Ed a questo tema si connettono strettamente altri due temi, l’alcolismo da un lato e il silenzio dall’altro. Tiziano Sclavi parte in entrambi i casi dal suo vissuto personale. Nel primo caso, per quanto riguarda l’alcolismo affida a questa testimonianza il suo amore e la sua gratitudine per gli Alcolisti Anonimi che lo hanno aiutato a non bere nell’ultimo trentennio, a parte un’unica ‘scivolata’. Nel secondo, il silenzio può ondeggiare fra una ‘solitudine assordante’, provata in passato, e una pace di riposo come quella del bosco in cui abita attualmente. Ma nella storia appena pubblicata rappresenta la “disperazione che può risolversi solo con la morte”.

Sperando che l’ottimismo del lungo percorso di cura e di vita supportato dal sostegno di gruppo possa concedere a Tiziano Sclavi, ed al suo personaggio Dylan Dog, orizzonti meno cupi.

domenica 23 ottobre 2016

CULLE VUOTE E INFANZIA TRASCURATA


CULLE VUOTE E INFANZIA TRASCURATA

                                                                                      di Giorgio Macario

Lo so, sembra una contraddizione in termini.
Se le culle sono vuote, se in Italia i già scarsi poco più di 240.000 nati nei primi sei mesi del 2014 sono scesi a poco più di 235.000 nel 2015 (-2%) e a poco più di 220.000 nel 2016 (-6%), triplicando il trend negativo, se ne dovrebbe dedurre che i bambini sono diventati ‘merce’ preziosa e quindi, in quanto tali, sono particolarmente curati ed accuditi.
Di fatto, così non è. Assistiamo, infatti,  certamente ad una crescente ‘ansietà genitoriale’, una diffusa preoccupazione di non essere in grado di accudire quell’unico figlio che sempre più spesso rappresenta tutto il capitale riproduttivo che mettiamo a disposizione della prosecuzione della razza umana.  

Ed ormai da parecchi anni vengono proposti corsi per fare i genitori, scuole di genitorialità che dovrebbero compensare la ormai totale assenza di ‘istruzioni parentali’ che per secoli sono passate da una generazione all’altra. Ma queste proposte sono un palliativo, perchè la dura realtà dei fatti  è che all’inizio del secolo scorso era considerato normale che una famiglia potesse crescere 8/9 figli (con uno o due di loro che erano destinati a non raggiungere la maggiore età), a metà del secolo scorso era normale avere 4/5 figli e fare del proprio meglio per crescertli dignitosamente, mentre dall’inizio di questo millennio la normalità è avere un figlio unico o rinunciare del tutto ad averne (1,35 figli per coppia è la media atttuale, contro il tasso di mantenimento costante della popolazione che è di 2,1 figli per coppia) e incontrare sempre maggiori difficoltà, quasi come se ci considerassimo analfabeti in ambito genitoriale.

Ma come, si potrebbe osservare, se non c’è mai stato maggiore investimento di denaro per acquistare tutto ciò che è umanamente possibile, fino a saturare la camera del proprio figlio, estendendo questi acquisti nel settore elettronico ed informatico, con una conseguente saturazione anche dello spazio ‘cloud’ (è di pochi giorni fa il via libera dei pediatri americani al possibile utilizzo dei tablet per gli infanti sopra i 18 mesi)? Se non ci sono mai state così tante attività sportive, ricreative, intrattenitive ed integrative rivolte a singoli bambini come in questi ultimi anni? Appunto! 

Dobbiamo prendere atto che una sostanziale trascuratezza è perfettamente compatibile con una sovra-abbondanza di ‘cose’, anzi spesso l’abbondanza di ‘oggetti ed attività compensative’ è funzionale ad una consistente assenza affettivo-relazionale, di sostanza e non di forma.

L’esternalizzazione di questa incapacità ad essere vicini nella sostanza ai nostri figli è dimostrata ancor più dalla assoluta mancanza di fiducia nelle pur indispensabili deleghe educative che qualsiasi genitore deve concedere: in primis quelle alle educatrici/assistenti/insegnanti che operano nella principale agenzia educativa dopo la famiglia, e cioè la scuola. Lo schierarsi sempre e comunque a favore del figlio nei mille contrasti che possono sorgere con le/gli insegnanti, lungi dal rappresentare una corretta azione educativa, mina alla base la credibilità complessiva del sistema educativo adulto agli occhi dei ragazzi. Non si vuole certo enfatizzare lo schierarsi dei genitori del secolo scorso a favore del maestro di turno, sempre e comunque, anche nel caso di qualche ceffone che se impartito lo si presupponeva meritato, bensì che un genitore ‘sufficientemente buono’ – tranne in caso di abusi conclamati- fa crescere il proprio figlio in una rete fiduciaria fra le diverse agenzie educative. Se, invece, difende il figlio costantemente ‘a prescindere’, non gli consente di crescere in una situazione dialettica e mina drasticamente la formazione di una sufficiente autostima adulta.

Ma ritornando alle culle vuote, sappiamo che sono determinate da un combinato di crescente infertilità, differimento di maternità e paternità anche per il costante peggioramento della crescita economica, sfiducia nel futuro. E se fino a poco tempo fa era diffusa la percezione di una sostanziale ripresa demografica legata ai flussi migratori in entrata, è stato ormai appurato che il ben più alto tasso di fertilità delle donne straniere nella loro terra di origine, tende velocemente a scendere nel Paese ospitante fino a livelli prossimi a quelli autoctoni.

Ed allora piuttosto che lanciarsi in campagne (peraltro poco efficaci) volte a riempire le culle rimaste desolatamente vuote, sarebbe meglio prendersi cura dell’infanzia che già c’è; ma occorre farlo intervenendo per favorire la crescita di un rinnovato senso di comunità, contrastare l’isolamento familiare, genitoriale e personale, creando fiducia reciproca fra le varie agenzie educative e progettando politiche di welfare non solo indirizzate agli anziani (che votano) ma sempre più alle giovani generazioni (che se già non votano, lo faranno fra non molto).


Per favorire, usando le parole di un noto psicoanalista argentino, Miguel Benasayag, l’affermarsi di un’epoca delle ‘passioni gioiose’ di contro a quest’epoca sempre più di ‘passioni tristi’.

mercoledì 19 ottobre 2016

TRASPARENZA DEL PATTO EDUCATIVO O OPACITA' DELLA CULTURA DEL SOSPETTO?


TRASPARENZA DEL PATTO EDUCATIVO 


O OPACITA' DELLA CULTURA DEL SOSPETTO?


                                                                                                      di Giorgio Macario


Cosa vogliamo insegnare ai nostri figli?
Quale messaggio vogliamo trasmettere loro?
Vogliamo trasporre in ambito educativo  il messaggio attribuito all'Onorevole Giulio Andreotti 'A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca', insegnando loro a non fidarsi di nessuno, men che meno delle persone a cui li affidiamo all'asilo nido e alla scuola materna?
E perchè allora non estendere la proposta dalle elementari alle scuole medie fino alle scuole superiori, in modo da poter allargare il controllo anche ai casi di bullismo sostituendo le buone intenzioni della ‘peer education’ con il ‘peer suspect’?
Sono quindi le educatrici e le assistenti nei nidi e le maestre d'infanzia nelle materne, ma potenzialmente anche i maestri nelle elementari e i professori nelle medie e nelle superiori, ad essere i maggiori sospettati di possibili molestie, vessazioni, maltrattamenti, abusi e quant'altro il repertorio delle nefandezze attuabili in ambito educativo possa produrre?
Perchè è questo il messaggio veicolato dalla recente proposta di legge che mira all'introduzione di telecamere di sorveglianza negli asili nido e nelle scuole materne – estendendo la percezione di ‘minorità’ agli anziani e alle persone disabili ospitate in strutture di accoglienza-, proposta sostenuta dalle firme 'di oltre 50.000 genitori', con l'aggiunta di qualche insegnante, a sentire gli organizzatori, ed in particolare il padre di famiglia che si fa portavoce della proposta sui mass-media.
Nelle intenzioni dei proponenti la visione dei filmati avrebbe dovuto essere a disposizione non solo dei magistrati e delle autorità di Pubblica Sicurezza bensì degli stessi genitori; così facendo si sarebbe potuto soddisfare pienamente l’esigenza (e la voglia) di  controllo dei genitori. Ma a riportare a più miti consigli i proponenti hanno pensato i loro stessi consulenti esperti, che hanno prospettato insuperabili problemi di privacy.
Purtroppo anche la formulazione -mitigata- dell’introduzione delle telecamere ad esclusivo vantaggio della magistratura alimenta ugualmente e contribuisce a diffondere una cultura del sospetto che rende quantomeno opaco il messaggio educativo.
Conosciamo, d’altra parte, la potenza dei messaggi mediatici che portano, ciclicamente, alla ribalta delle news e dei social media alcuni episodi di maltrattamenti fisici e psicologici anche gravi; ben consapevoli del fatto che centinaia di migliaia di altri episodi giornalieri di buon funzionamento educativo non hanno, praticamente mai, diritto di cronaca.



Ed allora, ferma restando la legittimità dell’opera di controllo e sorveglianza che può essere disposta in quella estrema minoranza di situazioni potenzialmente a rischio,  perchè l’occhio ‘meccanico’ della telecamera dovrebbe funzionare meglio dell’occhio ‘biologico’ del genitore? Perchè dobbiamo compromettere il patto educativo che stipuliamo e rinnoviamo quotidianamente con educatori ed insegnanti trasmettendo ai nostri figli il messaggio che non ci fidiamo di nessuno e, in fondo in fondo, neanche della loro capacità di ben-comunicare con noi eventuali problemi che si presentassero?
Le mille preoccupazioni, anche legittime, che ci assillano nella quotidianità dell’esistenza, non possono essere utilizzate come scusante.
La trasparenza del patto educativo che stipuliamo con chi si occupa dei nostri figli impone la pratica di una ragionevole fiducia, che è la stessa che dovrebbe permeare e arricchire la nostra competenza genitoriale.
Affinchè prevalga la trasparenza sull’opacità. E la qualità del patto educativo sulla indeterminatezza della cultura del sospetto.



giovedì 13 ottobre 2016

DARIO FO NEL RICORDO DI LELE LUZZATI (10 Settembre 2006)

(Tratto dal cap. XIX)


LELE, DARIO E FULVIO FO, QUESTO SCONOSCIUTO
di Giorgio Macario 


L’incrocio delle immense produzioni sia di Lele Luzzati che di Dario Fo, dà un unico concreto risultato. Si tratta di “Ho visto un Re”, testo di una famosa canzone di Dario Fo, interpretata da Enzo Jannacci, nel volume con illustrazioni di Lele Luzzati, Gallucci editore, Roma, Ottobre 2006.

Ho visto un re.
Hai visto cosa?
Ho visto un re!
Ah, beh; sì, beh…
Un re che piangeva
seduto sulla sella
piangeva tante lacrime
ma tante che
bagnava anche il cavallo!
Povero re!
E povero anche il cavallo!
Sì, beh; ah, beh…
(…)
Sempre allegri bisogna stare
Che il nostro piangere fa male al re.
Fa male al ricco e al cardinale,
diventan tristi se noi piangiam!”

“Ma come non sai chi è Fulvio Fo?” mi dice Lele giunti alla metà del pomeriggio.
Confesso quasi subito la mia ignoranza, non prima di avergli fatto sapere che conosco naturalmente di fama sia Dario Fo che sua moglie Franca Rame. Ho conosciuto invece personalmente il figlio di Dario, Jacopo perché qualche anno fa abbiamo pranzato insieme ad un amico comune nel suo agriturismo vicino ad Arezzo, che si chiama Alcatraz, dove ricordo in particolare una magnifica piscina ‘a scomparsa’ collocata in mezzo ad un prato. Dovevamo discutere di alcuni progetti di collaborazione con i C.E.M.E.A.[1] toscani.


“ In realtà io ho conosciuto Dario Fo molti anni fa”, mi dice Lele. Ed è su questo primo incontro che concentra le sue osservazioni successive.
“La prima volta che ci siamo conosciuti, c’era una persona che mi aiutava a fare le maschere per il Lea Lebovitch – stiamo quindi parlando della seconda metà degli anni ’40- che mi ha detto se volevo accompagnarlo alla Stazione Brignole per salutare un amico. Quest’amico veniva da Milano in treno e si fermava nella nostra città solo un paio d’ore, perché era di passaggio diretto altrove.”
“Siamo andati e lo abbiamo incontrato dal barbiere della stazione –che è chiuso ormai da molto tempo-, ed era lì che si faceva tagliare i capelli. E’ così che ci siamo conosciuti con Dario Fo.”
“Anche il fratello di Dario, Fulvio Fo, l’ho conosciuto perché legato all’ambiente del teatro. Infatti lui è stato responsabile amministrativo del Teatro di Torino per diversi anni, se ricordo bene; io con il Teatro di Torino ho collaborato molto, e loro hanno una parte consistente di materiali connessi alle mie sceneggiature.[2] Pensa che è una delle persone che mi hanno chiesto di dipingergli tutta la casa a Torino, ma non chiedermi dove, perché non me lo ricordo proprio. D’altra parte non è l’unico cui io abbia dipinto interamente la casa: sicuramente ho lavorato per dipingere sia la casa di Gianni Polidori (lo scenografo di Squarzina, nda) a Roma, sia la stessa casa dell’amico di cui ti parlavo prima, a Genova, che mi aiutava a fare le maschere per il Lea Lebovitch, e tramite il quale ho conosciuto Dario Fo. Ad un certo punto so che suo fratello Fulvio si è trasferito in Sardegna, e da allora non ne so più niente.
Invece con Dario, che in quel periodo era abbastanza conosciuto specie per la radio e in particolare per una esclamazione che faceva “puer nano!” o qualcosa di simile in milanese, siamo rimasti in contatto anche se con lui non ci sono mai state molte occasioni di collaborare a delle produzioni. Infatti, a differenza di molte altre persone con cui ho collaborato, lui si è sempre fatto tutto da solo e –mi dice come ribadendo una ovvietà - c’è da capirlo perché ha frequentato l’Accademia di Brera a Milano e voleva diventare un pittore all’inizio.” In effetti ricordo con Lele che anche negli anni ’70 e ’80 erano suoi quasi tutti i disegni legati agli spettacoli che produceva, ma ancor più i numerosissimi volumi e le trasmissioni televisive di questi ultimi anni vedono la realizzazione da parte sua di centinaia di disegni e illustrazioni.
“Una delle ultime volte –prosegue Lele- l’ho visto per l’allestimento dell’opera ‘Il viaggio a Reims’qui da noi al Carlo Felice[3], e mi è sembrato piuttosto in forma. Abbiamo potuto scambiare qualche parola anche alla mostra allestita per l’occasione nella piccola galleria all’inizio di Vico Duca”.
Dei problemi di salute che Fo ha avuto negli ultimi anni non sa praticamente nulla, e appare francamente stupito e quasi incredulo quando gliene accenno. Ma gli dico subito che non si è mai dato per vinto, che continua a produrre ed interpretare spettacoli con l’aiuto di Franca, quasi a getto continuo. E vedo che, rassicurato dalle mie parole, si tranquillizza.
Lo star male di amici e colleghi, comprensibilmente e in considerazione delle sue stesse condizioni di salute ultimamente un po’ precarie, ha su di lui un effetto depressivo quasi di ‘contagio’, e faccio quindi in modo di non insistere oltre sull’argomento.

Al Premio Nobel per la letteratura assegnato a Dario Fo nel 1997 non si fa neppure cenno, credo quasi certamente non perché Lele volesse sottovalutare la cosa, quanto perché tutte le volte che si parla dei suoi contatti con persone anche conosciutissime, è l’esperienza comune, sono i sentimenti che circolano e anche i piccoli episodi che accadono ad essere importanti, e non tanto le glorie e gli onori suoi o degli altri.
Ma la conclusione di questa breve riflessione è comunque dedicata a Fulvio Fo, che il 17 ottobre 2010, quattro anni dopo queste citazioni di Lele e tre anni dopo la sua scomparsa, è mancato.  Pochi giorni prima ha lasciato scritto queste brevi, ma significative parole:
"Quando arriverà il mio momento, so che seguirò questa schiava- padrona con animo limpido, consapevole di potermene andare serenamente lasciando il mio riflesso, la mia impronta positiva sorridente di gioia illuminata e rassicurante." (Fulvio Fo, ottobre 2010).



[1] Centri di Esercitazione ai Metodi dell’Educazione Attiva. Organizzazione toscana che si è occupata particolarmente, negli anni ’70 ed ’80 e in raccordo con l’omonima organizzazione francese, della formazione degli operatori sulle tematiche del lavoro di gruppo e della comunicazione non verbale.
[2] Crf. i riferimenti a Pietro Crivellaro ed al Centro Studi del Teatro Stabile di Torino, in “Lele Luzzati e ‘il gioco del teatro’”, ivi cap. 11.
[3] “Il viaggio a Reims” – 2002, di G. Rossini. Regia scene e costumi di Dario Fo.

domenica 9 ottobre 2016

CONDUZIONE DI GRUPPO IN AMBITO AUTOBIOGRAFICO - 3° edizione (Anghiari, 24/27 novembre 2016)

Seminario autobiografico di approfondimento – 2016


CONDUZIONE DI GRUPPO IN AMBITO AUTOBIOGRAFICO (3° ed.)
Apporti autobiografici e valorizzazione della narrazione di sé nei contesti di gruppo

Anghiari, 24/27 novembre 2016 – G. Macario 

Nella formazione degli adulti è importante approfondire le specificità dei gruppi e della loro conduzione.
Affrontare questo tema in un contesto di formazione specializzata in metodologie autobiografiche e biografiche, quale è di fatto la LUA,  costituisce una relativa novità.
Infatti è proprio la fondamentale e necessaria attenzione e centratura sul singolo e sul suo percorso, metodologicamente corretta, che può portare a sottovalutare la contemporanea presenza di situazioni di gruppo, scotomizzando le specificità connesse.
Non si tratterà tanto di far riferimento a generiche ‘dinamiche di gruppo’ valide per qualsiasi situazione di gruppo in formazione, ma di approfondire il tema facendo riferimento a contesti ‘ad alta sensibilità autobiografica’.
La narrazione di sé entro contesti di gruppo presuppone, da parte del conduttore, una specifica attenzione alle caratteristiche individuali, interindividuali e gruppali.
Al fine di affinare tali capacità, l’ascolto, la lettura e la restituzione entro ambiti formativi autobiografici saranno sperimentate ed affinate mediante scritture individuali, proposte esercitative, simulazioni e riferimenti a metodologie attente ai contributi ‘esperti’ dei singoli orientati verso l’autoformazione (fra queste una metodologia innovativa, già sperimentata dal conduttore negli ultimi anni, denominata ‘Birds Of Feather’).
I riferimenti teorici riguarderanno prevalentemente teorizzazioni derivanti dalle prassi e orientamenti di tipo autoriflessivo e autobiografico.


A chi è rivolto.
Questo seminario autobiografico di specializzazione è rivolto a tutti coloro che sono interessati ad approfondire tale tematica nella conduzione di laboratori autobiografici, ivi comprese le persone inserite nei percorsi formativi LUA. E’ altresì aperto a formatori con conoscenze di base già acquisite in ambito autobiografico e interessati alla sensibilizzazione autobiografica di contesti formativi diversificati.


Chi conduce il seminario.
Giorgio Macario è formatore, psicologo e psico-sociologo. Collabora con la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari fin dalla fondazione nel 1998 ed è attualmente membro del Comitato Direttivo, del Consiglio Scientifico e del Comitato Scientifico. Fin dagli anni ’80 e ’90 collabora con Duccio Demetrio presso l’Università Bicocca di Milano e in altri contesti nazionali. La sua formazione interdisciplinare in ambito pedagogico, psicologico e sociale lo ha portato ha interconnettere fra loro competenze formative, conoscenze specializzate sulla tematica dei gruppi e percorsi di approfondimento in ambito autobiografico. Collabora dal 2002 a tutt’oggi con l’Università di Genova dove ha insegnato Educazione degli adulti. E’ consulente dell’Istituto degli Innocenti di Firenze dal 1990, come responsabile della formazione nazionale per l’infanzia e l’adolescenza prima e responsabile scientifico e formativo della formazione nazionale per le adozioni internazionali fino ad oggi.

Tra le principali pubblicazioni.
L’arte di formarsi (Unicopli, 2008);  Dall’istituto alla casa (Carocci, 2008); L’arte di educarsi (Meltemi, 1999 e 1° rist. 2000).
Specificamente in ambito autobiografico: Conversazioni con Lele. 15 racconti e 20 incontri con Emanuele Luzzati (Youcanprint, 2013); Dove va la scrittura. Indagine-monitoraggio sulle scritture di sè in nItalia (Youcanprint, 2012); Un decennio rosso fuoco (2009).
Dopo aver presentato il proprio contributo al II Congresso Mondiale sulla Resilienza (Timisoara, maggio 2014), ha pubblicato RESILIENT LIVES AND AUTOBIOGRAPHICAL SUGGESTIONS: italian national training process in the field of intercountry adoption (Today’s Children Tomorrow’s Parents, June-September 2014 –Vol. 37-38), e in italiano, VITE RESILIENTI E SUGGESTIONI AUTOBIOGRAFICHE. Il lavoro formativo nazionale per le adozioni internazionali in Italia (Minori Giustizia, n. 2/2015).
Ha curato: 8 volumi per la Commissione Adozioni Internazionali e l’Istituto degli Innocenti di Firenze (2002-2013);  3 volumi per il Centro Nazionale di Analisi e Documentazione per l’Infanzia e l’Adolescenza e l’Istituto degli Innocenti (1998-2003); 1 volume per la Regione Basilicata; 3 volumi per la Regione Toscana (1992, 1993, 2001).
Ha pubblicato oltre 40 articoli su più di 20 riviste nazionali ed internazionali.

Note organizzative:
TEMPI
Da giovedì alle ore 15 a domenica alle ore 13
NUMERO MASSIMO DI PARTECIPANTI 20 max
SEDE Anghiari (AR)
ISCRIZIONE fino ad esaurimento posti
COSTO Euro 200,00 per l’iscrizione al seminario 
Per la partecipazione ai seminari è obbligatorio il versamento della quota associativa annuale di 
Euro 25,00
L’iscrizione va regolarizzata tramite bonifico bancario intestato alla Libera Università dell’Autobiografia sul c/c 5108 della Banca di Anghiari e Stia Credito Cooperativo ABI 8345 CAB 71310 CIN S 
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domenica 2 ottobre 2016

ECHI AUTOBIOGRAFICI E FORMATIVI - da un incontro con Giancarlo Berardi e la criminologa Julia

LA CRIMINOLOGIA A FUMETTI



L’evento ‘CRIMINOLOGIA A FUMETTI. Giancarlo Berardi e il caso Julia’ organizzato dal sottoscritto a Genova il 1° ottobre 2016 per conto della Libera Università dell’Autobiografia, ha incontrato fin da subito: l’adesione convinta di Francesco Langella, direttore della Biblioteca Internazionale E. De Amicis, che da oltre 25 anni cura interessanti eventi riguardanti anche il mondo dei fumetti; l’attento e sincero interesse del protagonista Giancarlo Berardi (notissimo creatore e sceneggiatore di ‘Julia’, dopo aver condotto per 20 anni l’epopea di ‘Ken Parker’); importanti patrocini (fra questi quello del Comune di Genova); la collaborazione di Alfredo Verde, professore ordinario di criminologia, ed il supporto, per la diffusione sui social media, di un giovane e capace comunicatore (Andrea, che -detto per inciso- è mio figlio).



Certo che il contemporaneo avvio della Mostra Internazionale di Cartoonists di Rapallo (dedicata a Bonelli e quindi con Berardi fra i principali invitati) e l’allerta meteo arancione, oltre ad almeno un paio di appuntamenti di grande richiamo a livello cittadino, hanno fatto temere per la buona riuscita dell’iniziativa che, invece, ha visto la sala incontri della De Amicis piena, con la presenza di una cinquantina di persone, diverse delle quali provenienti dal Centro e Nord Italia.


Ascoltando l’interessante e documentato intervento dell’ordinario di criminologia Alfredo Verde -coautore già nel 2002 di un articolo in tema sulla Rassegna Italiana di Criminologia-, così come l’affascinante e coinvolgente conversare con il pubblico di un narratore nato come Giancarlo Berardi, che hanno avvinto l’uditorio, ho realizzato che l’aver fatto incontrare due personaggi di così alto livello, interessati ai reciproci percorsi, ha rappresentato già di per sè un valore aggiunto dell’evento.


Qualche parola in più voglio però spenderla sul mio breve intervento di apertura, perchè ha inteso restituire il senso dell’iniziativa sul versante autobiografico.
Da formatore e psicosociologo, fin dai primi anni di esordio di Julia (1998) ho trovato le storie raccontate nel fumetto e ‘Il Diario di Julia’ -due pagine iniziali di contatto diretto fra le lettrici/i lettori e Berardi/Julia- una miniera di riferimenti a storie di vita, spesso attraversate da disagi personali ed esistenziali, trattate con estrema empatia, comprensione e delicatezza. Questo mi ha spinto fin da subito a tenere presente il tema in ambito autobiografico.


Lo stesso Berardi ha affermato in una recente intervista (JULIA - Numero Speciale 200 del maggio 2015): “I lettori hanno capito che il mio interesse per le loro vicende è genuino, che possono propormi qualsiasi argomento senza ricevere una risposta superficiale o scontata, e men che mai giudicante. In una società sorda ai motivi dell’altro, provo a rendermi utile, anche solo ascoltando e magari suggerendo un punto di vista diverso, in punta di piedi.”
La vicinanza, non certo per frequentazioni dirette quanto per una sorta di ‘sintonia naturale’, di queste affermazioni al metodo autobiografico che ispira in particolare la proposta di Laboratori autobiografici risulta evidente: attenzioni alle storie dei singoli, ciascuna significativa e degna di nota; capacità di ascolto; atteggiamento non giudicante; intreccio con la propria storia di vita, rispettando vicinanze e distanza; interessamento a coinvolgersi. Tutte queste attenzioni ci parlano di un coinvolgimento personale di Giancarlo Berardi caratterizzato da un rigore dal quale molti professionisti dell’aiuto potrebbero trarre grande giovamento per la loro formazione.


I Diari di Julia pubblicati fino ad oggi sono più di 200 e da questi si potrebbero citare decine di passaggi interessanti. Ne ho scelto una molto recente (del luglio scorso) per concludere la mia breve introduzione: nella lettera Benedetta R., in procinto di diventare madre, confessa a Berardi che chiamerà Giulio il figlio maschio, sperando che possa crescere con le doti di spiccata umanità e straordinaria sensibilità che il personaggio Julia (e il suo creatore Berardi) interpreta al meglio. E Berardi, dicendosi ‘toccato’ da quest’annuncio, augura al figlio, in questo mondo impregnato di ingiustizia, dolore e atrocità, di poter contribuire a recuperare i valori nfondamentali dell’esistenza.




Dal punto di vista autobiografico, come intreccio di storie di vita, credo sia estremamente significativo perchè non solo coinvolge i protagonisti attuali, ma proietta in avanti verso le nuove generazioni le speranza di un futuro migliore, da costruire giorno per giorno. Alla cui riuscita si è cercato di dare un piccolo apporto con questo nostro incontro, leggero e profondo ad un tempo.

Il resoconto è riportato anche sul sito della LUA all'indirizzo:
http://www.lua.it/index.php?option=com_content&task=view&id=4159&Itemid=2