domenica 22 dicembre 2013

SILENZIO, E BOCCHE CUCITE



Il silenzio può rappresentare una conquista di civiltà che ci salva dalla baraonda della quotidianità congestionata e convulsa.
Il silenzio può anche essere vissuto alla stregua di un tentativo di immergerci in una natura sempre più snaturata nel tentativo di passare dal ruolo di violatori colpevoli a quello di custodi premurosi, transitando, magari,per una più neutra posizione di osservatori inerti.
Ancora il silenzio può incarnare lo stupore dell’inatteso, quel ‘restare senza parole’ che prelude in genere ad una metabolizzazione più o meno accentuata che ci consenta di esprimere adeguatamente il nostro pensiero e le nostre reazioni.
Oppure può essere il silenzio che si fa protagonista di scenari carichi di emozioni che sconcertano e svuotano o invadono e saturano  ad un tempo, rendendo superfluo qualsiasi commento aggiuntivo.
Il silenzio può essere imposto, con un atto autoritario che censura o anche auto inflitto, come segno di sorda opposizione che resiste.
Ma quando il silenzio viene autoimposto per l’impossibilità di attribuire un qualsiasi significato esplicativo alle parole che, in altri tempi e contesti, potrebbero esprimere dolore  e rabbia senza essere immediatamente svuotate di senso;
quando il silenzio rimane l’ultima delle opzioni per cercare di penetrare il muro dell’indifferenza e mitigare almeno un poco il deserto della solitudine che circonda la disperazione degli animi;
quando, soprattutto, per mostrare la violenza strisciante e conclamata che viene perpetrata giorno dopo giorno entro strutture segreganti ove si costringono persone innocenti, vengono esperite soluzioni raccapriccianti altamente simboliche ma anche drammaticamente avvilenti;
quando tutto ciò accade e le bocche cucite non rappresentano più un’espressione metaforica che denuncia un’impossibilità oggettiva, non importa se auto o etero imposta,
allora l’ago ricavato dalla parte metallica di un accendino e il filo tratto da una coperta sfilacciata che si attorcigliano a serrare le labbra di otto di loro, rappresentano gli strumenti ultimi, auto lesivi della carne ma non dello spirito, estrema denuncia dell’orrore patito che cerca di provocare ripugnanza, affinché almeno un barlume di indignazione possa attraversare la pubblica opinione.
Silenzi innaturali che disvelano la natura bestiale delle sofferenze procurate.
Azioni di protesta che, pur emulando alcuni accadimenti analoghi in diverse parti del mondo, non dovrebbero aver più ragione di esistere, collocate al di fuori del consesso degli umani.
Bocche cucite che urlano la loro disperazione al mondo, in attesa di un nuovo anno che speriamo infonda un po’ più di speranza ad una umanità martoriata. (G.M.)

giovedì 19 dicembre 2013

I FUOCHI DI MINAS THIRIT E LE GRIDA SILENZIOSE


I fuochi che si scorgono in lontananza non sono le cataste di legna sulle cime dei monti che vengono accese da Minas Thirit, capitale del regno di Gondor, per chiedere aiuto a Rohan, regno dei Cavalieri. In poche parole non siamo nel Signore degli Anelli di Tolkien e non si tratta della speranza che dilaga.
Gli unici fuochi che si intravedono sempre più vicini sono le torce umane che si accendono ad intervalli irregolari, grida sempre più silenziose che si innalzano nel cielo. L’ultima, di cui è appena giunta l’eco, davanti alla residenza del rappresentante di Dio in Terra. In poche parole  si tratta della disperazione dei singoli che vedono spegnersi qualsiasi capacità di desiderare ancora.
E’ la stanchezza ad imperare mentre la vita scorre via  e la stessa linfa vitale che sgorga dalla terra sembra inaridirsi e seccare appena giunge a diretto contatto con l’aria che respiriamo.
A poco servono le difese d’ufficio, le constatazioni opportunistiche e le interpretazioni saccenti.
Nel nulla cadono le flebili voci che si limitano alla constatazione dell’ovvio, ai timidi richiami ad una responsabilità personale, ai vagheggiamenti su presunte ‘terze vie’ che dovrebbero comparire all’orizzonte una volta smarrite sia le principali che le secondarie.
E’ pur vero che uno sguardo attonito può lasciare un segno indelebile mentre un proclama roboante si stempera quasi all’istante nel successivo vento dell’indifferenza. A volte, accade. Anche se rappresenta più spesso una reazione del singolo piuttosto che un’azione corale.
Ma quando le grida silenziose, anziché disperdersi, si uniscono potenti, penetrano più a fondo delle urla disumane, lacerando gli animi. 
Allora, chiunque non sia accecato dalla presunzione, potrà fare questa semplice constatazione: il confine dell’umana sopportazione è ormai varcato. 
Occorrerà indignarsi, protestare e rivendicare nuovi orizzonti. Probabilmente si.
Ma ancor più sarà necessario riflettere, testimoniare e vigilare perché chi ha a cuore il futuro dell’umanità possa prevalere su chi vuol solo distruggere. (G.M.)

Questo scritto è stato riprodotto anche al seguente indirizzo:
http://www.lua.it/accademiasilenzio/i-fuochi-di-minas-thirit-e-le-grida-silenziose/#more-2733 

domenica 8 dicembre 2013

LA MIA AUTOBIOGRAFIA MOTOCICLISTICA

.....ovvero, come rendere la propria vita più leggera.....

Tutto cominciò molto, ma molto presto, con mio padre Marzio che passò dal Guzzi 'Cardellino' 65cc al Guzzi 'Stornello' 125cc per finire con un Guzzi 'Astorino' 250cc.....


...e proseguì, alcuni anni prima dei miei fatidici 14 con il Guzzi Trotter di mia sorella, 'preso in prestito' ogni tanto.


Ma il vero inizio della mia 'carriera' è legato ad un Guzzi Dingo 50cc nuovo fiammante, grigio e non rosso in realtà....


.....seguito dopo un paio d'anni, causa la sua sparizione sotto casa, da un Garelli 50cc molto bello, ma al quale non mi fu possibile affezionarmi troppo.....


...causa nuova sparizione -dopo 2 giorni- sempre sotto casa, prima che facessi in tempo a prendere un posto moto finalmente al chiuso.
Ci rimasi molto male, naturalmente, e dopo essermi assicurato il fatidico posto in garage, fu la volta del mitico Aspes 50.


La successione degli acquisti è naturalmente legata alla generosità di mio padre, dato che dai 14 ai 18 anni il mio impegno scolastico al Liceo fu affiancato da un impegno lavorativo non estemporaneo in porto a sostegno di papà, cosa di cui vado orgoglioso da sempre.
Ma i 18 anni arrivarono in fretta e alla scelta fra moto e macchina, non ebbi dubbio alcuno: un Morini 3 e 1/2 (350cc) fu il mio mezzo di trasporto (e di divertimento)....


...seguito da un Morini enduro Camel 500, che ha resistito fino alla nascita di mio figlio Andrea.


Dopo un lungo periodo senza due ruote -durante il quale, per compensare un po' la perdita, ho realizzato una collezione di materiale postale a tema.... motociclistico, il 'passaggio di testimone' con Andrea mi ha portato prima a 'provare' ogni tanto la sua prima moto da sedicenne, una Honda XR 125L -discreta ma troppo piccola per la mia stazza-....


...poi a chiedere in prestito sempre più spesso la sua Kawasaky ER 5 -500 cc...


...ed infine, recentissimamente, ad 'approfittare' del suo nuovo ed ultimo acquisto, con molti anni alle spalle ma rimessa completamente a nuovo, una Honda Hornett 600.


Un vero gioiello, devo ammetterlo.
E così si giunge all'epilogo, provvisorio, di questo cammino personale sulle due ruote.
Una passione difficile da estirpare e una emozione lunga una vita..........



mercoledì 27 novembre 2013

LA RELIGIOSITA' DELLA TERRA



Frammenti di vita - 19 novembre 2013

Firenze. Le note dell'organo riempiono lo spazio circostante inserendosi nelle fessure dei muri.
Luci fioche e soffuse illuminano volti sofferenti e stormi di angeli dorati lasciando in penombra ampie volte e nicchie posizionate in successioni geometriche.
Singole note prendono a percorrere le pareti verticali a strapiombo sui marmi geometricamente convergenti verso l'altare.
Le panche quasi vuote accolgono anime sperdute in contemplazioni assorte, laiche o religiose, non importa.
Magari non tutte assorte, alcune anche ridenti e riposanti.
Luci elettriche quasi dappertutto, tranne di fronte ad una piccola Madonna sul lato dell'altare, riscaldata da pochi guizzi tremolanti. 
Una ragazza ne aggiunge alcune e, quindi, esce soddisfatta.
Luci che ardono come speranze che divampano o semplicemente resistono.
Ascolto l'organo che prosegue incessante nel suo cammino, sempre più pieno e greve. Poi passa ad armonie più tenui e giunge l'ora di lasciare il posto a qualche altra anima solitaria.
Attratto a mia volta dalle esili luci delle piccole candele, mi avvio ad accenderne qualcuna, pagando il dovuto, ed a lasciare il mio obolo per il riposo e la musica. Il cartello dice che verrà usato per completare il restauro dello strumento.
Anche questa forse, è religiosità della terra, tanto più laica quanto più religioso è il posto che l'accoglie.

domenica 24 novembre 2013

RISCOPRIRE IL LEGAME CON LA TERRA



FRAMMENTI DI VITA - 16 novembre 2013

Anghiari. La piana della battaglia è davanti ai miei occhi.
Sono qui da ieri pomeriggio e riparto in serata. 
Il libro di Duccio, arrivato solo l'altro ieri a Genova, 'La religiosità della terra', è già iniziato.
Le linee verdi dell'evidenziatore lo percorrono in cerca di conferme e sorprese.
L'introduzione è chiara e scorrevole.
Ma adesso sono in piazza Baldaccio ed è la Piana di Anghiari ad avere il sopravvento.
Ritorno con la mente al gruppo del Seminario di ecologia narrativa del giugno scorso che, insieme al convegno nazionale del maggio con Vandana Shiva, è stato il punto di avvio di questa nuova avventura.
La camminata del sabato pomeriggio, senza grandi pretese e purtuttavia avvincente, ci ha portato dai Bastioni granitici alla campagna soleggiata fino all'orto del Talozzi impreziosito dal laboratorio del Giorni, e poi ancora oltre sul greto del fiume, non senza rendere un doveroso tributo a due maestosi alberi posti quasi a guardia dell'accesso alle acque.
Scrivere, e condividere, questa la ratio.
Scrivere per sè, soprattutto, ma anche per gli altri in sè e per l'altro da sè.
Ma anche scrivere per la terra, per restituirle almeno in parte ciò che costantemente ci dona, accogliendoci.
Scrivere per narrarci, ma anche per narrarla.
Ciascuno per suo conto ma con la presenza costante -fisica, materiale, eterea e spirituale- degli altri, che ci accompagnano in questa avventura a termine che è la vita.
A chi dovremmo essere grati per la buona sorte di esistere se non alla terra?

sabato 23 novembre 2013

NAVIGARE NELLA TURBOLENZA

Prendo spunto da un'affermazione di Corrado Augias che domenica 10 novembre, interloquendo con un lettore di Repubblica sul tema L'educazione dei giovani comincia in casa, ha detto che per quanto riguarda i genitori “gli esempi contano un po’ di più poichè l’educazione comincia con quello che i giovani vedono in casa”.
Sono d'accordo, anche se allargherei il quadro affermando che, subito dopo, l’educazione dei giovani prosegue nella scuola, di ogni ordine e grado. E per quanto riguarda l'educazione dei giovani a scuola credo sia significativa l’analisi di Massimo Recalcati quando ci parla di una scuola che dal complesso di Edipo (discipline trasmesse senza soggettività) passa al dominio del complesso di Narciso (tutto semplificato, ostacoli spianati dai genitori ed insegnanti con un ruolo anche educativo sostitutivo ma ambiguo) per approdare al complesso di Telemaco (i giovani in attesa che qualcosa del  padre torni, fosse anche sotto forma di un ‘pezzo’ di insegnante).
In un recente laboratorio autobiografico con insegnanti ed educatori su ‘Navigare nella turbolenza’, promosso per cercare di ri-orientare l’insegnamento e il lavoro educativo in un mondo sempre più complesso, si è osservato quanto sia necessario che queste figure a stretto contatto con i giovani sappiano ripartire da sè, in senso autoriflessivo, per narrare ai giovani una relazione educativa dotata di senso che li spinga ad intraprendere, insieme, un ‘viaggio formativo’. Anche in questo caso gli esempi contano ma le competenze necessarie crescono in maniera consistente. 
Riorientarsi seguendo percorsi riflessivi ed autoriflessivi può rappresentare, quindi, l'utilizzo di un altro seme che potrebbe, presto o tardi, germinare.
L'educazione perciò comincia sicuramente a casa, ma è altrettanto indubitabile che prosegua negli ambiti scolastici che non possono limitare la propria la propria mission al puro e semplice insegnamento disciplinare.

lunedì 11 novembre 2013

VIVERE, AI CONFINI DELL'UNIVERSO


Stai vivendo la tua vita, ma sembri non accorgerti di trovarti ai confini dell’Universo.
Nessuno, infatti, dotato di un minimo di raziocinio può pensare di occupare il centro della scena.
D’altronde, in un Universo multicentrico, va da sé che convergere verso un’unica meta per occupare saldamente il palcoscenico, non è realisticamente possibile.
Puoi restringere il campo, ma non tarderai a scoprire che anche la tua Patria, la tua Regione e la tua Città sono ugualmente multicentriche.
Tutto accade in una pluralità di situazioni diverse.
Ciò vuol dire, in concreto, che anche ove occupassi il centro di una scena, avresti un numero imprecisato di imitatori su altrettante tribune; impossibile a dirsi se più centrali o più periferiche.
E’ allora che ti butti sul tuo Quartiere, pensando che diventare Re a casa propria è più facile che farlo in trasferta. 
Niente di più sbagliato! Avevi dimenticato l’antico adagio che recita ‘Nemo propheta in patria’. E così ti accorgi che anche il Quartiere è multicentrico, così come il Rione, la Strada e finanche il Caseggiato.
“Basta! Ho capito l’antifona,Questa volta non posso fallire.”
Ti alzi presto al mattino, prendi le misure, tracci rette e diagonali, calcoli il centro perfetto della tua Abitazione e lo vai ad occupare, pensando che nessuno potrà insidiare il tuo primato.
Resti immobile, pregustando chissà quali soddisfazioni e riconoscimenti.
E lì rimani, a consumare il giorno e la notte che si avvicendano, le settimane che si accumulano, i mesi che si sgretolano e gli anni che rotolano via.
Poi, all’improvviso, capisci ciò che neanche mille anni di spiegazioni articolate avrebbero potuto farti comprendere.
Non esiste alcun centro, nè per te, tantomeno per la Terra o per l’intera Galassia.
Lo stesso concetto di multicentrismo è malposto e, sostanzialmente, erroneo perché moltiplica le centralità invece di abbatterle.
Ma in assenza di uno o più centri anche le periferie perdono significato ed i confini diventano una mera convenzione che distingue il conoscibile dall’inconoscibile.

E’ per questo che, ormai anziano ma non vinto nello spirito, lasci il centro della tua Abitazione per cominciare, realmente, a vivere.
Visitando luoghi frequentati da molti ma sconosciuti ai più.
Raggiungendo mete fisicamente irrilevanti ma spiritualmente sconfinate.
Esplorando percorsi considerati elementari che celano mete magistrali.
Ed alla fine comprendi il messaggio: non sei al centro; non sei nemmeno in periferia; semplicemente, ci sei.
E passare oltre non è una iattura quanto una controprova dell’esserci stati.
A che scopo? Non è dato sapere, anche se spesso la soluzione di un enigma è più vicina di quanto non si creda.
Riceverla –la vita-, viverla e donarla a propria volta, se si è fortunati, è già un grande traguardo. Una luce che rischiara il cammino, nei momenti difficili. (G.M.)

martedì 5 novembre 2013

IO C’ERO - Il valore delle testimonianze autobiografiche


L’incontro fra gli ‘angeli del fango’ 
delle alluvioni genovesi del 1970 e del 2011
                                                                                             


Impossibile in un contesto così intriso di ‘saperi esperienziali’, come l’iniziativa odierna (“LA CATENA DEL FANGO. I ragazzi dell’11 e del ‘70 si incontrano." Genova, 4 novembre 2013 - Accademia Ligustica di Belle Arti), non partire dalla propria esperienza personale prima di dire alcune parole sul valore delle testimonianze autobiografiche.

Nel 1970, in quanto quattordicenne liceale genovese, ricordo di aver partecipato allo sgomento generale di vedere l’intera città in ginocchio e di essere andato a spalare fango a Voltri, che era una delle zone più colpite della città. E’ stata senz’altro un’esperienza speciale, ma di breve durata e piuttosto estemporanea perché ero ancora molto giovane e le forti condivisioni con il gruppo di pari della mitica sezione G al Fermi, che durano ancora oggi, erano di là da venire con un solo mese di scuola alle spalle. Così il ricordo principale che conservo di quell’esperienza riguarda più mio padre che alla mezzanotte del 7 ottobre 1970 è partito a nuoto da via Buranello a Sampierdarena dove abitavamo per andare a recuperare il fidanzato di mia sorella più grande, un giovane lavoratore emigrante catanese, bloccato a Fegino da un fiume d’acqua tutto intorno; lungo la strada ha salvato una signora anziana che stava per annegare, l’ha poi raggiunto e l’ha riportato nella nostra casa nuotando per lunghi tratti in oltre tre metri d’acqua. Come si vede, quindi, è predominante  un ricordo ‘biografico’ riguardante mio padre piuttosto che uno specifico ricordo autobiografico.

Nel novembre 2011, in quanto maturo formatore cinquantacinquenne il principale ricordo dell’alluvione che conservo è invece legato ad una testimonianza scritta che ho realizzato per il sito della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari all’indomani del 4-5 novembre, colpito anch’io come molti altri dall’aiuto praticamente immediato che è venuto da molti giovani, facendo subito pensare ad una riproposizione dell’esperienza degli angeli del fango del 1970 a Genova ma anche del 1966 a Firenze. Scrivevo allora, fra l’altro, e mi piace ricordarlo in questa occasione:
“Ma c’è anche un altro silenzio possibile.
E’ il silenzio delle imprese memorabili.
Imprese che non nascono per gli onori della cronaca e quand’anche vi giungano, non ne dipendono.
Un vicino che strappa ad una morte orribile in uno scantinato due persone e si cruccia di non aver potuto fare di più.
Una mamma che salva la figlia prima di cedere alla furia degli elementi.
Una giovane che organizza una pagina face book e, aiutata da pochi amici, indirizza in maniera efficace migliaia di volontari.
Un cittadino qualsiasi che si mette al servizio degli altri svolgendo una piccola e semplice funzione, come distribuire migliaia di caffè, consentendo ad altrettante persone di provare un po’ di conforto e di moltiplicare gli sforzi.
Sono silenzi edificanti di imprese memorabili che parlano al cuore più che alla mente, ed incarnano la speranza di un qualche futuro per l’umanità.
Concludendo con questa osservazione:
Ci vorrebbero un po’ più di questi silenzi vitali al posto delle troppe parole assordanti che, purtroppo, sono state sparse a piene mani come sale sulle ferite della Terra.

Il valore delle testimonianze autobiografiche è consistente, perché tali testimonianze possono essere considerate una sorte di base comune che riguarda praticamente tutti, quasi ‘pre-formativa’. Qualsiasi apporto serio, prima di poter essere proposto a livello formativo, deve essere sperimentato e ‘vissuto’.
Ed è proprio ‘La scuola della vita’, come è intitolato uno degli ultimi testi di Gianpiero Quaglino, uno dei padri della formazione in Italia, che viene indicata come una pratica di formazione lungo tutto il corso della vita. E non solo, ma è l’esperienza di formazione che in realtà deve ‘inseguire’ la scuola della vita perché occorrerà “restituire all’esperienza di formazione quel carattere imprevedibile, indeterminato, imponderabile e talvolta anche inesprimibile che spesso finisce per assumere il corso stesso della vita.”
Fare un’esperienza è naturalmente indispensabile per avere, poi, qualcosa da raccontare, e l’aver partecipato allo sforzo comune di aiuto altruistico e condiviso, anche solo semplicemente spalando fango, rappresenta un’esperienza profondamente personale ma al contempo fortemente collettiva. E’ anche per certi aspetti un ‘mutuo-aiuto’ perché aiutando altri do’ un senso al fatto di esistere.
Inserire questa specifica esperienza nel proprio percorso autobiografico (che ricordo, da ‘autos’, ‘bios’ e ‘graphein’ ci richiama lo scrivere il proprio percorso di vita, e da’ quindi anche un valore particolare alla scrittura e non solo alla narrazione), fatto a due anni di distanza –come per gli ‘angeli del fango’ del 2011- o a oltre 40 anni da quegli avvenimenti –come per gli ‘angeli del fango’ del 1970- ha un grande valore perché è proprio dalle esperienze più emotivamente coinvolgenti che si può ripartire per capire come e quanto siamo cresciuti con questa ma anche con molte altre esperienze che si perdono nei meandri della mente.
Duccio Demetrio, che possiamo considerare il padre dell’autobiografia in Italia, in un suo testo fondamentale, ‘Raccontarsi’, ci dice: “L’autobiografia non è soltanto un tornare a vivere: è un tornare a crescere per se stessi e gli altri, è un incoraggiamento a rubare giorni al futuro che ci resta , e a vivere più profondamente (…) quelle esperienze che, per la fretta e la disattenzione degli anni cruciali, non potevano essere vissute con la stessa intensità.”
In questo modo l’autobiografia diventa un vero e proprio ‘viaggio formativo’, nel quale sono presenti non uno solo, ma diversi ‘io’: poter inserire la propria rievocazione autobiografica in una ‘prima grande rievocazione collettiva delle alluvioni’ –cito dagli organizzatori dell’iniziativa- e poterlo fare confrontandosi fra generazioni diverse rappresenta un valore aggiunto che sfata, fra l’altro, il mito della narrazione autobiografica come esercizio individualistico e solipsistico che rinchiude ciascuno nel proprio recinto esistenziale.

Conoscersi meglio scambiandosi racconti di esperienze comuni o diversificate è un’occasione preziosa. Utilizzare questa occasione per proseguire o avviare un proprio percorso di conoscenza autobiografica, oltre che di ricerca di confronti costruttivi, può rappresentare un’evoluzione sociale come capita di rado di incontrarne. In tempi così votati al pessimismo sarebbe un bel segnale in controtendenza. (G.M.)

giovedì 31 ottobre 2013

IO SONO MALALA - Dal Premio Sakharov 2013 al Premio Nobel 2014 - Quarta e ultima parte

VICINI A MALALA - Quarta Parte (Tra la vita e la morte)

Cap. 21 – <Dio, l’affido a te>.
“Papà era al Club della Stampa dello Swat (…) Lui era sempre stato convinto che se i talebani fossero venuti ad ammazzare qualcuno sarebbe toccato a lui, non a me. (…) Ma fu l’esercito a prendere in mano la situazione. Alle tre del pomeriggio il comandante del distaccamento locale giunse in ospedale e annunciò che era in arrivo un elicottero militare che avrebbe trasportato me e mio padre in un ospedale di Peshawar, (…) Mentre guardavano il velivolo sollevarsi piano, mia madre si tolse il velo dalla testa –un  gesto rarissimo per una donna pashtun- e lo sollevò alto verso il cielo con entrambe le mani, come in una offerta. <Dio, l’affido a te>, disse rivolgendosi al cielo. (…) Lei era affidata alla Tua protezione, e adesso Tu devi rendercela>.”

Cap. 22 – Viaggio nell’ignoto.
“ Il governo inglese aveva offerto assistenza: aveva bisogno però di una richiesta formale da parte del governo pakistano. Ma il mio governo era riluttante a procedere perché temeva di perdere la faccia. Fortunatamente, a questo punto, ci fu un intervento diretto della famiglia reale degli Emirati Arabi Uniti, che offrì un suo jet privato con a bordo un ospedale completo. Sarei uscita dal Pakistan per la prima volta in vita mia nelle prime ore di lunedì 15 ottobre.”


 Quinta Parte


(Una seconda vita)
Cap. 23 – <La bambina a cui hanno sparato in testa, Birmingham>.
“Ero ossessionata dal problema dei soldi. Quelli dei miei premi se ne erano quasi tutti andati nella scuola e per comprare un appezzamento di terra nel nostro villaggio nello Shangla. Ogni volta che vedevo i dottori confabulare tra loro pensavo che stessero dicendo <Malala non ha i soldi. Malala non può pagarsi le cure.> (…) Poi Rehanna mi disse che in tutto il mondo milioni di persone e di bambini mi avevano sostenuto e avevano pregato per me.  Fu allora che mi resi conto che la gente mi aveva salvato la vita. Se ero stata risparmiata, c’era una ragione.”

Cap. 24 – <Le hanno strappato il sorriso>.
“Spesso noi esseri umani non ci rendiamo conto di quanto Dio sia grande. Lui ci ha dato un cervello straordinario e un cuore sensibile e capace d’amore. Ci ha benedetto donandoci due labbra con cui parlare ed esprimere i nostri sentimenti, due occhi con cui ammirare un mondo di colori e di bellezza, due piedi con cui percorrere le strade della vita, due mani che lavorano per noi, un naso capace di cogliere i profumi e due orecchie con cui sentire parole d’amore. Come avevo sperimentato nel caso del mio orecchio sinistro, non ci rendiamo conto di quanto potere ci sia in ciascuno degli organi del nostro corpo finchè non ne perdiamo uno.”

EPILOGO – Un bambino, un insegnante, un libro, una penna….
“Il giorno del mio sedicesimo compleanno ero a Naw York per parlare alle Nazioni Unite. Alzarmi in piedi per rivolgermi ad una platea nell’immensa sala dove tanti leader mondiali hanno parlato prima di me è stato terribilmente emozionante, ma sapevo cosa volevo dire.(…) Non avevo scritto il mio discorso pensando soltanto ai delegati delle Nazioni Unite. L’avevo preparato pensando di rivolgermi a chiunque nel mondo possa fare la differenza. (…) <Prendiamo in mano i nostri libri e le nostre penne>, dissi. <Sono le nostre armi più potenti. Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo.> (…)
La pace in ogni casa, in ogni strada, in ogni villaggio, in ogni nazione– questo è il mio sogno. L’istruzione per ogni bambino e bambina del mondo. Sedermi a scuola e leggere libri insieme a tutte le mie amiche è un mio diritto. Vedere ogni essere umano sorridere di felicità è il mio desiderio.

Io sono Malala. Il mio mondo è cambiato, ma io no.” 

domenica 27 ottobre 2013

IO SONO MALALA - Dal Premio Sakharov 2013 al Premio Nobel 2014 - Terza parte



VICINI A MALALA - Terza parte (Tre ragazze, tre pallottole)

Cap. 16 – La valle delle disgrazie.
“Era la peggiore alluvione a memoria d’uomo. (…) Sui giornali leggemmo che in quella catastrofe erano state perse più vite umane ed erano stati causati più danni che nello tsunami del Sudest asiatico, nel terremoto del 2005, nell’uragano Katrina e nel sisma di Haiti messi insieme. (…)
La gente abitava lungo il corso dello Swat da più di tremila anni e l’aveva sempre visto come una fonte di vita e non come una minaccia, considerando la nostra valle come un porto sicuro. Ora invece eravamo diventati <la valle delle disgrazie>, come diceva mio cugino Sultan Rome. Prima il terremoto, poi i talebani, poi le operazioni militari e adesso, proprio mentre stavamo cercando di ricostruire, quell’inondazione che aveva spazzato via tutto il nostro lavoro.”

Cap. 17 – Pregavo di diventare più alta.
“Nell’ottobre 2011 papà mi disse che una e-mail l’aveva informato del fatto che io ero una delle cinque candidate per il premio internazionale per la pace di Kid’s Rights, un’organizzazione con sede ad Amsterdam che lavora in difesa dei diritti dei bambini. Il mio nome era stato fatto dall’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, un grande eroe di mio padre per la sua lotta contro l’apartheid. Papà fu molto deluso quando non vinsi, ma io gli feci notare che noi non facevamo altro che parlare: non avevamo un’organizzazione che facesse delle cose pratiche come i vincitori del premio.”

Cap. 18 – La donna e il mare.
“Era il gennaio del 2012, e ci trovavamo a Karachi ospiti di Geo TV, dopo che il governo del Sindh aveva annunciato la propria intenzione di ribattezzare una scuola secondaria femminile di Mission Road con il mio nome.(…) …lei ci mostrò che proprio quel giorno i talebani avevano pubblicato su Internet delle minacce contro due donne: Shah Begum, un’attivista del Dir e…me, Malala. <Queste due stanno diffondendo il secolarismo, e bisognerebbe ucciderle!> diceva il testo. (…) Dissero che il mio profilo nazionale e internazionale mi era valso l’attenzione e le minacce di morte dei talebani, e che ora avevo bisogno di protezione. Si offrirono di fornirci una scorta, ma papà era riluttante. Molte persone, nello Swat, erano state uccise pur avendo le guardie del corpo, anzi, il governatore del Punjab era stato freddato proprio da una di loro.”

Cap. 19 – Una talebanizzazione <privata>.
“Il 12 luglio compii 15 anni, il che, secondo l’Islam, significa che sei un adulto. Insieme al mio compleanno arrivò la notizia che i talebani avevano ucciso il proprietario dello Swat Continental Hotel, che era un attivista per la pace come mio padre. (…) <I talebani non sono una forza organizzata come ce la immaginiamo noi>, disse Hidayatullah, l’amico di mio padre, quando ne parlarono. <Rappresentano una mentalità, e questa mentalità è un po’ dappertutto in Pakistan. Chiunque sia contro l’America, contro l’establishment pakistano, contro la legge inglese, è stato infettato dai talebani.>”

Cap. 20 – Chi è Malala?
“…cominciai a mia volta a fare brutti sogni. Non dicevo niente ai miei genitori, ma quando uscivo di casa avevo paura che talebani armati di fucile mi saltassero addosso, o che mi gettassero dell’acido in faccia come avevano fatto con alcune donne in Afghanistan. (…)
Non vidi i due giovani uomini che avanzarono di un passo in mezzo alla strada costringendo l’autobus ad una brusca frenata. E non ebbi modo di rispondere alla loro domanda -<Chi è Malala?> - altrimenti avrei spiegato loro che dovevano assolutamente permettere a noi ragazze di andare a scuola, e anche alle loro figlie e sorelle.”

giovedì 24 ottobre 2013

IO SONO MALALA - Dal Premio Sakharov 2013 al Premio Nobel 2014 - Seconda parte





VICINI A MALALA - Seconda Parte (La valle della morte)

Cap. 9 – Radio Mullah.
"<E' così che lavora questa gente. Vogliono conquistare il cuore e la mente delle persone, quindi in una prima fase studiano bene quali siano i problemi di una zona e ne identificano i responsabili, in modo da conquistare l'appoggio della maggioranza silenziosa. E' quello che hanno fatto nel Waziristan, dove hanno cercato di eliminare il problema dei rapimenti e dei banditi. Poi, quando riescono ad andare al potere, si comportano esattamente come i criminali a cui prima davano la caccia.>"

Cap. 10 – Caramelle, palle da tennis e i Buddha dello Swat.
" Il 27 dicembre (2007) Benazir Bhutto partecipò a un comizio elettorale a Liaquat Bagh, il parco di Rawalpindi in cui era stato assassinato il nostro primo ministro Liaquat Ali Khan. <Sconfiggeremo le forze dell'estremismo e i combattenti in armi con il potere della gente>, disse, e tutti applaudirono. (...) Quando venimmo a sapere che non era sopravvissuta (all'attentato), una voce dentro di me disse <Perchè non vai laggiù a batterti per i diritti delle donne?"

Cap. 11 – La classe delle intelligentone.
"La nostra scuola era un porto sicuro tra gli orrori che accadevano fuori. Tutte le altre ragazze della mia classe sognavano di diventare medici, ma io decisi che avrei fatto l'inventore e costruito una macchina antitalebani che li avrebbe aspirati e risputati fuori senza le loro armi."

Cap. 12 – La Piazza Insanguinata.
"I corpi venivano scaricati in mezzo alla piazza affinchè tutti potessero vederli il giorno dopo andando al lavoro. Di solito c'era un bigliettino attaccato a unpo dei cadaveri che diceva qualcosa come: <Ecco cosa succede a un agente dell'esercito>, oppure <Non toccate questo corpo fino alle 11 di domani o sarete i prossimi. (...) Erano talmente tanti i cadaveri che erano stati buttati in quello spiazzo che ormai la gente aveva preso a chiamarla la Piazza Insanguinata."

Cap. 13 – Il diario di Gul Makai.
"Fu durante uno di quei giorni bui che mio padre ricevette la telefonata del suo amico Abdul Hai Kakar, corrispondente radiofonico della BBC con sede a Peshawar. Stava cercando un'insegnante che volesse scrivere un diario raccontando la vita sotto i talebani. Voleva mostrare il lato umano della catastrofe in corso nello Swat. (...) Non avevo mai tenuto un diario prima di allora e non sapevo come cominciare. (...) La mia prima pagina di diario fu pubblicata il 3 gennaio 2009. Il titolo era <Ho paura>. (...) Scrivevo che avevo paura di andare a scuola per colpa dell'editto dei talebani e che ero costretta a guardarmi continuamente alle spalle."

Cap. 14 – Uno strano tipo di pace.
"La pressione esercitata dall'intero paese ebbe effetto e Fazlullah accettò di togliere la proibizione ma solo per le bambine fino a dieci anni, vale a dire nella quarta classe. Io ero in quinta e insieme ad alcune mie compagne fingemmo di essere più piccole, Ricominciammo ad andare a scuola, vestite normalmente e con i libri nascosti sotto lo scialle. Era pericoloso, ma allora era la mia unica ambizione. (...) <La scuola segreta è la nostra protesta silenziosa>, ci disse (l'insegnante, la signora Maryam)."

Cap. 15 – Lontano dalla valle.
“Lasciare la valle fu la cosa più difficile e dolorosa che avessi fatto fino a quel momento. (…) Il 5 maggio 2009 diventammo ufficialmente <sfollati interni>. Suonava come una malattia. (…)
E’ straordinario pensare che i tre quarti di tutti gli sfollati interni furono accolti da famiglie di Mardan e della vicina Swabi. Tutti aprirono le porte delle loro case, scuola e moschee ai profughi. Nella nostra cultura ci si aspetta che le donne non socializzino con uomini che non sono loro parenti. Per proteggere il purdah, gli uomini delle famiglie che accolsero i profughi andarono addirittura a dormire fuori casa. Diventarono a loro volta sfollati interni volontari. Un incredibile esempio della famosa ospitalità pashtun.”

lunedì 21 ottobre 2013

IO SONO MALALA - Dal Premio Sakharov 2013 al Premio Nobel 2014 - Prima parte








VICINI A MALALA - Prima Parte (Prima dei talebani)

"Io sono Malala. La mia battaglia per la libertà e l'istruzione delle donne" è il volume autobiografico di Malala Yousafzai che è appena uscito in tutto il mondo. Il progetto 'VICINI A MALALA' oltre a sostenere la sua candidatura al Premio Nobel fino a quando questo non sarà effettivamente assegnato, intende per il momento far sentire in presa diretta la sua voce riportando alcuni frammenti significativi del libro.

Cap. 1 – E’ nata una femmina.
"Per molti pashtun, quello in cui nasce una femmina è un giorno triste. (...) Ma mio padre, Ziauddin, è diverso dalla maggioranza degli uomini pashtun. (...) E spiegava a chiunque lo stesse a sentire: <So che c'è qualcosa di diverso in questa bambina>. Chiese agli amici di gettare nella mia culla frutta secca, dolci e monetine, un'usanza che di solito vale solo per i neonati maschi."

Cap. 2 – Mio padre, il falco.
"Il nonno gli trasmise dunque un profondo amore per l'apprendimento e la conoscenza, insieme a un'acuta consapevolezza dei diritti e delle discriminazioni, tutte cose che a sua volta mio padre ha insegnato a me."

Cap. 3 – Crescere in una scuola.
“Si può dire che io sia cresciuta a scuola. (…) Un pomeriggio del settembre 2001 vidi intorno a me una grande agitazione. Alcune persone arrivarono di corsa e dissero che a New York c’era stato un attacco devastante, con due aerei di linea che si erano scagliati contro due grattacieli. Io avevo solo 4 anni, ed ero troppo piccola per capire. (…) La scuola era il mio mondo, e il mio mondo era la scuola. In quel momento non ci rendevamo conto che l’11 settembre avrebbe cambiato per sempre anche il nostro mondo e che un giorno avrebbe portato la guerra nella nostra valle.”

Cap. 4 – Il villaggio.
“Ascoltando le notizie sulle atrocità che si stavano perpetrando in Afghanistan, mi veniva da esaltare la vita nello Swat. <Qui almeno una ragazza può ancora andare a scuola>, pensavo. Ci si sente liberi, quando ancora non si conosce ciò che accade nel mondo. Ma i talebani erano appena fuori dalla porta di casa, ed erano pashtun come noi. Per me la nostra valle era un posto pieno di sole e non mi accorgevo delle nubi che si addensavano dietro le montagne. Mio padre mi diceva sempre: <Ci sono io a proteggere la tua libertà, Malala. Continua a coltivare i tuoi sogni.>”

Cap. 5 – Perché non porto gli orecchini e perché i pashtun non dicono grazie.
"C'è un'altra cosa nella lettera che Lincoln scrisse all'insegnante di suo figlio: <Gli insegni a perdere con grazia>. Io ero abituata a essere sempre la prima della classe, ma sapevo che anche se hai vinto le ultime tre o quattro volte questo non significa che la prossima vittoria sarà automaticamente tua. E che a volte è meglio raccontare la tua storia. Da quel momento in poi cominciai a scrivermeli da sola, i miei discorsi, e cambiai il modo di pronunciarli, direttamente dal cuore e non dalla carta scritta."

Cap. 6 – I bambini della discarica.
"A scuola avevo parlato con i miei amici dei bambini della discarica, dicendo che dovevamo assolutamente aiutarli. (...)Qualcuno diceva anche che non stava a noi cercare di risolvere simili problemi. (...)Sapevo che era del tutto inutile fare appello al generale Musharraf. In circostanze del genere, secondo la mia esperienza, se papà non poteva fare niente c'era solo un'altra opzione: scrissi una lettera a Dio. <Caro Dio, so che Tu vedi ogni cosa (...) Ma non credo che saresti molto contento se vedessi come vivono questi bambini della discarica della mia strada sul loro cumulo di immondizie. (...) la arrotolai, la fissai ad un legnetto, vi legai un dente di leone e la abbandonai nel torrente che si gettava nel fiume Swat. Sicuramente lì Dio l'avrebbe trovata."

Cap. 7 – Il mufti che voleva chiudere la nostra scuola.
"Nel 2003 aprì i battenti la scuola superiore di mio padre. Il primo anno furono formate classi miste. Ma l'anno seguente l'aria era cambiata, ed era diventato impensabile tenere insieme maschi e femmine."

Cap. 8 – L’autunno del terremoto.
Lo Swat si trova su una linea di faglia e i terremoti sono piuttosto frequenti. Ma quella volta (8 ottobre 2005) fu diverso. Attorno a noi tutti gli edifici tremavano e nell'aria rimbombava un tuono che sembra non dovesse mai cessare."

lunedì 23 settembre 2013

Festival Nazionale dell’Autobiografia 2013 - Anghiari LEVARSI LA CISPA DAGLI OCCHI


Entro nella sala già al buio. Anche lo schermo è scuro e a tentoni mi posiziono a ridosso dello stipite della porta di ingresso.
Nel buio intravedo tutti i posti a sedere occupati e decido di stare in piedi, tanto –mi dico- non durerà più di 20-25 minuti, come tutti i documentari che vogliano illustrare un tema realistico e niente affatto leggero quali le attuali condizioni di vita nelle carceri.
Sullo schermo cominciano a scorrere le immagini e fermo, lì, in piedi, perdo la cognizione del tempo che scorre.
Nadia, Gimmy, Barbara…..
Le mura alte e lisce, le pesanti porte metalliche che si aprono e si chiudono, le chiavi che entrano ed escono dai buchi delle serrature, ferro contro ferro. 
Ogni tassello sembra rientrare in un puzzle che evoca immagini rinchiuse, segregate, claustrofobiche.
.....Alfonso, Silvana, Mauro…..
Fosse solo questo, non avrei retto più di 5-10 minuti al massimo, perché ciascuno ha i propri fantasmi interiori e difficilmente si presta, se non costretto, a rievocarli.
Sono i volti che cominciano ad emergere a fare la differenza: volti anche scavati ma nitidi, sinceri, espressivi.
E sono ancor più le parole che vengono pronunciate ad inchiodare tutti coloro che ascoltano, seduti o in piedi, al proprio posto.
Echi profondi emergono guidati da un linguaggio emotivo che credevo si fosse ormai smarrito nella notte dei tempi.
…..Renzo, Filippo, Detty…..
Presenze vive e palpitanti si muovono entro spazi reclusi e si dissolvono come per incanto per poi ricomparire poco più oltre.
Ma sono le parole pronunciate da questo ‘popolo della lettura e della scrittura del carcere di Opera a Milano’ –così come lo definirà Duccio Demetrio introducendo la loro testimonianza diretta- che fanno la differenza.
Sono parole piene che rimangono sospese a mezz’aria senza precipitare.
Sono parole aspre che penetrano nei cuori di chi ascolta facendoli palpitare senza scompensarli.
Sono parole in libertà che non trasudano vendetta e risentimento e pur non facendo sconti sciolgono barriere e pregiudizi.
…..Emanuela, Giorgia, Deborah…..
Oltre al nome di ciascuno, è l’indicazione degli anni già trascorsi in cella a precedere i mesi o gli anni ancora da scontare: è così che ognuno viene presentato.
Sette, quindici, diciassette, trenta anni, da un lato.
Cinque mesi, due, dodici anni, fine pena mai, dall’altro.
Enormità quantitative si intrecciano a miracoli qualitativi. Un mix di amarezza, buon senso e profondità di pensiero prende strade diverse. Si parla; si scrivono brevi testi o si riempiono decine e decine di pagine; si compongono poche righe in rima o più poesie già prima di ogni incontro.
Ma ciò che colpisce è come, nel laboratorio autobiografico,  ci si prepari all’incontro con figure di scrittori ed artisti di spicco del panorama nazionale. Sembrano quasi più preparati gli ‘studenti’ dei ‘professori’, tanto che uno dei primi dirà successivamente e con semplicità: “Il professor Demetrio è venuto per partecipare al nostro gruppo.”
…..Paolo, Carlo, Cristina.
Sono tutti loro, al termine della proiezione, ad emergere in carne, ossa e pensieri: i registi, i volontari, le conduttrici dei laboratori, ma soprattutto alcuni dei protagonisti del ‘popolo dei lettori e degli scrittori del carcere di Opera’, che sembrano aver letteralmente ‘bucato lo schermo’.
Da liberi, semi-liberi ammessi a misure alternative, o detenuti in permesso, non importa.
E non mancano nemmeno le ‘parole in libertà’ di chi non è fisicamente presente, citate a più riprese.
La dedica finale ai quattro detenuti morti nel carcere di Opera solamente nell’ultimo mese, poi, ricorda a tutti che stiamo parlando sì di un’esperienza quale ‘Leggere libera-mente’ che ha riguardato alcune decine di detenuti, ma che la popolazione carceraria –oltre 1400 persone nel solo carcere di Opera- è ben più estesa.
Gli applausi non si contano, ma è l’affetto corale che si sprigiona dalla sala a rimarcare il fatto che l’autobiografia se in alcuni casi può rappresentare un autocompiacimento solipsistico, in altri è lezione di vita straordinaria non solo per chi racconta ma specialmente per chi ascolta. Che può ringraziare il cielo per essere divenuto capace, avviandosi all’uscita della sala, di levarsi un po’ di cispa dagli occhi. (G.M.)

Intervento ripreso dal sito ufficiale del film  nella sezione 'Dicono di noi', all'indirizzo:
http://www.levarsilacispadagliocchi.it/levarsilacispadagliocchi.it_-_dicono_di_noi.html

domenica 8 settembre 2013

UNA LUCE CHE RISCHIARA IL CAMMINO

Una luce che rischiara il cammino, nei momenti difficili


Stai vivendo la tua vita, ma sembri non accorgerti di trovarti ai confini dell’Universo.
Nessuno, infatti, dotato di un minimo di raziocinio può pensare di occupare il centro della scena.

D’altronde, in un Universo multicentrico, va da sé che convergere verso un’unica meta per occupare saldamente il palcoscenico, non è realisticamente possibile.
Puoi restringere il campo, ma non tarderai a scoprire che anche la tua Patria, la tua Regione e la tua Città sono ugualmente multicentriche.

Tutto accade in una pluralità di situazioni diverse.
Ciò vuol dire, in concreto, che anche ove occupassi il centro di una scena, avresti un numero imprecisato di imitatori su altrettante tribune; impossibile a dirsi se più centrali o più periferiche.

E’ allora che ti butti sul tuo Quartiere, pensando che diventare Re a casa propria è più facile che farlo in trasferta. 
Niente di più sbagliato! Avevi dimenticato l’antico adagio che recita ‘Nemo propheta in patria’. E così ti accorgi che anche il Quartiere è multicentrico, così come il Rione, la Strada e finanche il Caseggiato.

“Basta! Ho capito l’antifona, questa volta non posso fallire.”
Ti alzi presto al mattino, prendi le misure, tracci rette e diagonali, calcoli il centro perfetto della tua Abitazione e lo vai ad occupare, pensando che nessuno potrà insidiare il tuo primato.
Resti immobile, pregustando chissà quali soddisfazioni e riconoscimenti.

E lì rimani, a consumare il giorno e la notte che si avvicendano, le settimane che si accumulano, i mesi che si sgretolano e gli anni che rotolano via.

Poi, all’improvviso, capisci ciò che neanche mille anni di spiegazioni articolate avrebbero potuto farti comprendere.
Non esiste alcun centro, nè per te, tantomeno per la Terra o per l’intera Galassia.
Lo stesso concetto di multicentrismo è malposto e, sostanzialmente, erroneo perché moltiplica le centralità invece di abbatterle.
Ma in assenza di uno o più centri anche le periferie perdono significato ed i confini diventano una mera convenzione che distingue il conoscibile dall’inconoscibile.

E’ per questo che, ormai non più tanto giovane ma con spirito rinnovato, lasci il centro della tua Abitazione per cominciare, realmente, a vivere.
Visitando luoghi frequentati da molti ma sconosciuti ai più.
Raggiungendo mete fisicamente irrilevanti ma spiritualmente sconfinate.
Esplorando percorsi considerati elementari che celano mete magistrali.

Ed alla fine comprendi il messaggio: non sei al centro; non sei nemmeno in periferia; semplicemente, ci sei.
E passare oltre non è una iattura quanto una controprova dell’esserci stati.
A che scopo? Non è dato sapere, anche se spesso la soluzione di un enigma è più vicina di quanto non si creda.
Riceverla –la vita-, viverla e donarla a propria volta, se si è fortunati, è già un grande traguardo.

Una luce che rischiara il cammino, nei momenti difficili.

sabato 31 agosto 2013

PER LELE - 2


I nostri incontri, devo confessarlo, mi mancano.
La quiete che pervadeva la casa piena della sua presenza mi manca molto.
La sua compagnia e la possibilità di recarmi da lui, certo con un minimo di 
motivazione che giustificasse la visita –i materiali ricercati e trovati in qualsiasi posto capitasse- ma senza alcuna necessità di prepararmi, mi manca immensamente.
Non c’era bisogno di un incipit particolare, bastava il piacere di discorrere, di conversare, appunto.
Per me era così, ma anche per Lele non c’era certo l’assillo di vedere a tutti i costi ciò che portavo, né l’attenzione tutta centrata su di sé che spesso caratterizza personaggi anche molto meno famosi di lui.
Che anzi si schermiva e si sottraeva non dico agli incensamenti ma anche al giusto riconoscimento del suo contributo spesso geniale, comunque originale nella sua naturalezza.
Poteva essere un po’ curioso, questo sì, di vedere cos’altro fossi riuscito a scovare.
Nessuna eventuale critica che poteva rivolgere a qualcuno era meno che ‘velata’, perché la benevolenza era una sua cifra caratteristica.
Solo con i potenti, con i personaggi importanti, si concedeva il lusso di sottrarsi un po’ infastidito ai rituali ossequiosi.
Mai visto negarsi con le persone più semplici, normali, con i bambini. Anzi era proprio in mezzo ai bambini che sembrava, in tutto e per tutto, uno di loro.
E’ stato molto attivo fino alla fine e non so prefigurarmi come facesse a reggere i ritmi della sua vita in età adulta, costellati di impegni diversificati, di frequentazioni importanti, di sperimentazioni mai banali.
Lui stesso, rievocandoli, se ne stupiva, divertito.
Detto molto semplicemente, migliorava la vita degli altri, per questo gli incontri con lui erano sempre a somma positiva.
Se fosse ancora vivo cercherei di trovare in qualche asta un manifesto di Picasso con firma autografa e poterglielo donare e supplire in qualche modo al dispiacere che lo attraversava tutte le volte che emergeva il ricordo di quel manifesto donatogli da Picasso e sottrattogli da un miserabile, in casa sua.
Ma, in fondo, le cose in quanto tali non lo interessavano; lo interessavano le persone e le stesse sue opere le considerava importanti non in sé, ma in quanto funzionali e utili a qualcuno.
Lui, la sua casa, la sua opera, sono per me inscindibilmente legati.
Per questo ho voluto, nel libro che presentiamo, ricordare gli incontri con lui e ripercorrere episodi e narrazioni per lo più già note. 
Con un consiglio di lettura che spero possa essere utile: leggete prima le figure, che rappresentano Lele nella sua abitazione purtroppo smantellata ed alcune fra le più belle dediche da lui disegnate durante i nostri incontri; poi vengono i 15 racconti che sono la parte più godibile del testo; il resto, i 20 capitoli, sono più da considerare una documentazione un po’ ‘enciclopedica’ della sua produzione ‘altra’. Che in quanto tale, va somministrata a piccole dosi, o al limite, utilizzata nei casi di insonnia più persistente.
In estrema sintesi credo che il maggior pregio del libro sia di consentire a ciascuno di noi di poter restare ancora un po’ in sua compagnia. Ma il merito non è certo mio. E’, in realtà, tutto suo. 

sabato 24 agosto 2013

Ottave di Franco Talozzi a l’orto delle “Ricordanze” Estate 2013

L’orto delle ricordanze




Le ‘ottave di Franco Talozzi’ rappresentano una narrazione autobiografica in versi di rara efficacia. Le prime due ‘introduttive’ condensano senza troppi fronzoli le non certo idilliache ‘origini contadine’ nella tenuta di Dolciano ed al contempo la realtà attuale dell’orto delle ricordanze che preserva il ricordo delle proprie radici.
Ma è nello spazio delle 25 ottave successive che compongono lo scritto che la dimensione soggettiva sempre presente non scade mai nella pura e semplice autoreferenzialità. Vi si rintracciano infatti le motivazioni che favoriscono la cura dell’orto all’acqua viola (1/2); la vicinanza con lo scultore Gianfranco Giorni , le vicissitudini travagliate connesse alla costruzione di un ‘brutto capannone’ nelle strette vicinanze  e la piena condivisione della battaglia per contrastarlo (3/5); la bellezza dell’arte scultorea  del Giorni e la tranquillità che pervade l’intero luogo dove ‘ogni cruccio o brutto pensier declina’ (6/8); considerazioni  anche autocritiche sul consumismo dilagante, sulle violenze perpetrate nei confronti della natura e sui danni provocati da certa politica (9/15); la cura dell’orto che si intreccia con rimandi autobiografici connessi sia all’esperienza di amministratore sia ai ricordi ed agli affetti di una vita (16/23); per concludere con una lucida  analisi sul fluire del mondo  ed  una pacata autoanalisi sulla propria scelta di vita attuale, senza rinunciare a prefigurare narrazioni future –‘ma di ciò parleremo un’altra volta’- e far balenare nuovi impegni  (24/25).
Si tratta, quindi, di riflessioni scaturite da una proficua domenica d’agosto, che potranno essere gustate a fondo e rappresentare un ottimo cibo per la mente. Senza dimenticare che l’orto curato dal Talozzi nella tenuta del Giorni  non produce solo insuperabili ‘ricordanze’ ma anche sublimi cocomeri e non solo, che con grande generosità e spirito di condivisione vengono consumati in allegria durante una festa memorabile che si ripete di anno in anno.

          (Presentazione a cura di Giorgio Macario)

Franco Talozzi - domenica 4 agosto 2013



Di sangue contadino assai lontano,
la mia famiglia sotto il Gran Ducato, (1)
nella “Bella Tenuta” di Dolciano,
a mezzadria faceva il lavorato
dalla collina al lago giù sul piano,
a testa bassa e collo piegato:
le condizioni eran tanto meschine,
ecco le mie radici contadine.

L’orto lo chiamo “Delle Ricordanze”
per non obliare mai le mie radici,
in Val di Chiana e nelle vicinanze
dove io nacqui ed ebbi tanti amici;
di quei tempi mi parlano l’usanze,
quando non c’erano  le falciatrici:
e con fatica allor si lavorava,
poco ma e genuino si mangiava.






1- “Già discendendo l’arco d’i miei anni”                        
assai deluso da tanto  progresso,
per evitar problemi e molti affanni
a coltivare l’orto mi son messo
in questo luogo che più di mill’anni (2)
girò  la pietra con l’acqua del fosso
presso la casa di Gianfranco Giorni,
che se ci vieni sempre ci ritorni.

2- Alla mattina quando sorge il sole
danzano scintillii di colori,
scendon dal pioppo brusio di parole,
lungo il Tevere un velo di vapori,
il canto del cuculo par che duole
e  gli uccelletti qui fanno l’amore:
il verdeggiar dell’orto mi consola,
mi sento tanto bene “all’acquaviola”.(3)


3- Gian Franco, uomo dotto e preparato,
l’arte della scultura fa il suo vanto;
tien sempre il prato verde e ben rasato,
alla forma e bellezza tiene tanto;
intorno a lui vorrebbe che il creato
si sublimasse in forma d’un santo:
ma  gli imbecilli che lui non ama
gli hanno tappato tutto il panorama!


4- Di giorno in giorno lui s’incupa  e cruccia,
vedendo il bello in brutto tramutare,
tante amarezze sul cuore ammucchia
che il pensiero non può accettare;
quel brutto capannone è una macchia
che la sua mente non può cancellare:
a tal simili scempi non si perdona,
di ciò tant’ore assieme si ragiona.

5- Il salice fa ombra, ed il suo viso
una lama di luce lo rischiara,
parla con proprietà ed è deciso
alla battaglia che bene prepara;
molti  siamo dello stesso avviso,
per la difesa d’una cosa rara:
che ogn’uno ormai più spesso sente
di tutelare, salute, terra, ambiente.

6- Così  adombrato da mattina a sera,
trova la pace nel laboratorio;
modella  ad arte i bronzi con la cera
e alla fine esce fuori il tesoro,
bollente e rosso dentro la zuppiera,
con scoppiettanti fuochi color d’oro:
poi , l’impurità con arte sfronda
ed ecco! Una bellissima colomba!


7- A l’acqua Viola sorride ogni cosa
dal prato a l’orto al cielo a la collina
quando ci sei la mente si riposa
ogni cruccio o brutto pensier declina;
il merlo sulla querce si posa
e l’usignolo canta sulla cima:
Lante, la cagna con me ragiona
intelligente più d’una  persona!

8- Ore belle passiamo in compagnia,
approfondendo  temi con ragione,
Franco modella vergine Maria
e  l’angel bello dell’annunciazione
indica a dito la celeste via
per dare a tutti noi la redenzione:
e nell’amenità della mattina
tolgo l’erbacce e do una zappatina!

9- In questo mondo tanto tribolato,
  di giorno in giorno il bene s’allontana
  dentro di noi abbiam dimenticato
  del giusto viver la vita nostrana:
  ciò che un tempo ci venne insegnato,
  che l’onestà  non fosse cosa vana:
  col consumismo tutto, tutto piace
   ma non sappiamo più cos’è la pace!


10- Forse saranno gli anni o l’esperienza
   d’una vita vissuta tra le genti,
   perché mi morde dentro la coscienza
   nel constatare certi avvenimenti
   privi d’umanità e d’intelligenza,
   come se fosser morti i sentimenti:
   penso,  che sia stata una sciagura
   avere  bistrattato la natura!


11- Come posso esprimer  le meraviglie
del sol che sorge dal monte di dietro?
Miriadi di colori con scintille
se lo sguardo rivolgo allo “Sterpeto”;
sulla collina dormon tante ville
che resero al romano il tempo lieto: (4)                                                     
intanto annaffio e zappo, il raggio in viso
com’Angelo mi sento in Paradiso.

12- Poi, se ripenso a tanto rumore…
quando credevo di cambiar le genti (5)
quell’esperienza d’amministratore
ha smosso dentro me mille correnti;
la cultura doveva esser il motore
per arricchire i nostri sentimenti:
ma col pensier d’abbatter la miseria
prodotto  abbiamo solo la  materia!

13- Mercati, ristoranti e snak bar
fabbriche,capannoni e discoteche,
in massa tutti quanti a recitar
il consumismo come talpeceche,(6)
ogni donna vuol  esser ‘na  star
il giovan all’orecchio le “greche”:
questo è il costume ed il modo d’agire
non conta il vero, conta l’apparire.

14- L’esempio di ‘sto mondo scellerato
ce l’hanno dato quelli del “Palazzo”
invece d’educar hanno insegnato
ad arricchirsi e viver nel sollazzo;
il gretto e prepotente è premiato
a l’educato e giusto lo strapazzo:
immiseriti son tutti i mestieri
dai portaborse, ladri e faccendieri.


15- Tutti agghindati da l’omologazione
perdemmo il vero  e la genuinità,
l’idolo sommo , la televisione
e  ben sublimati di pubblicità;
cessò il cervello d’ogni paragone
e non sapemmo più la realtà:
oddio! L’acqua mi sta procurando un guaio,
ha inondato tutto lo zuccaio.


16- Or son molt’anni che mi ribellai (7)
ai soprusi  e all’imposizioni,
così m’accorsi e poi ne costatai
che i bei discorsi eran pie illusioni;
da quell’esperienza cominciai
con l’occhio e veder altre visioni:
finito il tempo era della riscossa
e non cantammo più “Bandiera Rossa”.

17- Ventisei  giugno di primo mattino
zappo  l’erbacce nel mezzo dell’orto
oh! Meraviglia c’è un cocomerino
che fra i tralci se ne sta nascosto,
lo muove il vento e fa capolino
fra foglie e fiori, che faranno presto:
e nasceranno tondi  con vigore
per sprigionar dentro il suo rossore.


18- Quest’anno è andata male la stagione,
le nubi hanno pianto in quantità,
procurando alla terra una cagione
ma la natura sa quello che fa
e sono certo che la vegetazione,
darà i suoi  frutti maturi a sazietà:
solo l’umano provoca tanti guai
ma la natura non tradisce mai!


19- Mi siedo e poggio il mento nella mano
ed estasiato osservo l’orto in fiore,
poi col pensier vado un po’ lontano
a tante cose fatte con amore;
rivedo i volti amici piano, piano
ripenso al Premio e al suo valore (8)
quando ad Anghiari la fucina d’arte
cultura propagava da ogni parte.


20- A questo mondo tutto s’interrompe 
come scrisse Francesco, l’aretino,
son tutte vane cose, nostre pompe
che affrettano sempre più il declino; 
ma quando l’uomo l’equilibro rompe,
cose nefaste porta al suo cammino:
bisogna sempre guardare alle stelle
per costruire e fare cose belle!

21- Si può gioire per un filo d’erba,
stupirsi al luccicar della rugiada,
fare il bambino con ‘na mela acerba,
camminar scalzi nella bianca strada;
tante emozioni l’orto mi riserba
che ogni lavoro sempre più m’aggrada:
ci vuole poco per esser contenti
e dare  pace ai nostri sentimenti.

22- Annaffio,  zappo e la schiena reclino,
respiro odore di fieno falciato,
rivedono i miei occhi lo zi’ Gino (9)
che coglie i pomodori inginocchiato
e i dispetti di quel ragazzino…
che rallegrava tutto il caseggiato:
non stava fermo mai un istante
s’arrampicava sempre sulle piante.


23- M’assale allora una malinconia
e la mia mente vaga nel passato,
la giovinezza fu tutta armonia
quando con Anna ero fidanzato;
di quegl’anni sento la nostalgia,
tutto ho presente, non dimenticato:
di ricordar quel tempo mai mi stanco             
e di  quei baci al “Cavallino Bianco”! (10)


24- Ogni cosa oggi fugge come lampo,
rimane poco tempo per pensare,
tutti siam fatti con l’unico stampo,
e ci moviamo come onda di mare.
Ho scelto questa vita fin che campo,
vivo felice  col mio lavorare:
m’accontento del poco e genuino
e non mi cruccio se non ho quattrino.


25- Ho fatto tardi e il mio tempo vola,
devo far fronte agli impegni presi;
Gian Franco parlerà “dell’acqua viola”
e  i progetti dei  Camaldolesi,
che con gran lavorio di carriola,
resero campi ampi e ben difesi: 
dopo d’aver  per bene l’acqua tolta,
ma di ciò parleremo un’altra volta.


Note al testo.


1-Dolciano: comune di Chiusi (SI) una delle 13 fattorie Granducali.
2-L’acqua del fosso: la “reglia dei mulini” dove si macinavano le granaglie con la mola di pietra.
3-Acquaviola: la “Reglia dei mulini” chiamata così forse per il colore del guado che veniva messo a macerare, o come pensa Gianfranco Giorni, da attribuirsi al nome di una Dea dimorante presso le sorgenti del Tevere.
4-“Sterpeto”:sulla collina d’Anghiari sono ancora evidenti tracce di antiche ville di nobili romani.
5-Cambiar le genti: mi riferisco al mio impegno politico-amministrativo.
6-Talpeceche: mammiferi appartenenti alla famiglia dei Talpidi.
7-Che mi ribellai: alludo allo strappo avvenuto nel 1988-89, con i dirigenti del PCI di Arezzo, per il progetto turistico di Albiano.
8-Premio e al suo valore: “Premio Internazionale di Cultura”promosso da Comune di Anghiari dal 1978 al 1992.
9- Lo zi’ Gino: il mio zio che faceva l’ortolano per la fattoria di Dolciano.
10-Cavallino Bianco: nome del cinema a Chiusi Stazione dove negli anni 1953-1954 andavo con la mia fidanzata Anna Maria, ora mia moglie.