MAURIZIO MAGGIANI
LA ZECCA E LA ROSA
(Feltrinelli, Milano, 2016)
Invito alla lettura a cura di
GIORGIO MACARIO
Per descrivere La zecca
e la rosa con le stesse parole dell’autore, ci si potrebbe limitare a dire
che i 123 racconti sintetici che compongono questo “piccolo almanacco delle
Creature”, vanno a configurare una sorta di “vivario di un naturalista
domestico”, dove la rievocazione del recinto della Roma Augustea che ospitava
gli animali feroci o selvatici destinati alle Arene viene mitigata dalla natura
domestica del naturalista Maggiani.
Ma il contesto autobiografico nel quale matura questa presentazione
(legata al conferimento a Maurizio Maggiani, in Anghiari, del Premio Città
dell’Autobiografia 2017) mi porta ad evidenziare anzitutto tre qualità che emergono potenti dalla
lettura dell’insieme del testo.In primo luogo, la semplicità della natura che ci circonda e
alla quale dimentichiamo troppo spesso di concedere un po’ del nostro tempo e
della nostra attenzione.Ancora, la sensibilità di uno sguardo attento al paesaggio
esterno ma saldamente legato ai paesaggi interni della mente che esplora,
vagando fra rapide rievocazioni sensoriali ed elaborate connessioni
associative.Infine, la capacità di far trasparire il generale dalla
descrizione poetica del particolare, senza inutili appesantimenti; come appare
evidente, ad esempio, dal transitare senza soluzione di continuità
dall’ammirazione per un fiore come l’iris “rupestre e scontroso, selvatico”
all’affetto per la gente perbene attorno alla quale questo fiore sceglie di
crescere, siano essi “contadini pieni di dignità” dell’oggi, o “altri
contadini...lì da settant’anni...dove li hanno fucilati i tedeschi”, con il
“loro cippo tutto smagliante di iris.”
Duccio Demetrio nel suo ‘Green
Autobiography’ scrive: “Chi ami contemplare il mondo, non vergognandosi affatto
di incantarsi dinanzi a un albero, a una mareggiata, a un tramonto o provi
gioia alle prime luci del giorno...dinanzi a una mela prima di assaggiarla, non
avrà forse tutto il diritto di occuparsi d’altro nella vita, ritagliandosi un
po’ di tempo per questo?” e più oltre: “Con la scrittura, la formica quanto un
cespo d’erba, un rampicante o un passero, un vitello o una zolla di terra
entrano più intimamente a far parte della nostra vita.” Maurizio Maggiani
sembra utilizzare uno schema analogo aggiungendo un tocco spesso ironico ma
anche poetico per far risaltare le
piccole cose che rendono la vita migliore; come quando rivaluta le castagne di
sua nonna rispetto alle madeleine proustiane, narra l’origine del botolo di San Lorenzo (Cattedrale di
Genova) aggiunto furtivamente dallo scalpellino piangente per la sua scomparsa,
o invita a costruire un tabernacolo per poter contemplare la struggente
bellezza di una foglia caduta, evitando di liquidarla con un’occhiata svagata e
supponente.
Impossibile ricostruire percorsi univoci
negli intrecci di decine di fiori, frutti, alberi, piante, animali terrestri,
pesci, uccelli, attrezzi vari e quant’altro è stato utilizzato come incipit per
i diversi capitoli, mentre appaiono realisticamente possibili altrettanti
percorsi autobiografici che ciascun lettore potrà costruire entrando in
sintonia con alcune fra le numerose esperienze descritte.
Ma sono ancora le stesse parole
dell’autore tratte dalla terza di copertina che consentono di collocare al
meglio la lettura in chiave autobiografica del volume. Dice Maggiani: “Sono
nato in un paese di campagna nel cuore della miseria degli anni cinquanta, sono
stato cresciuto alla confidenza con tutto ciò che ha vita e va bene per la
vita, chi mi ha educato aveva più parole per le piante e le bestie che per i
cristiani, mi è stato insegnato a guardare e ascoltare e odorare e toccare ogni
creatura...Sono tornato a vivere nella campagna, i miei vicini sono tutti
quanti contadini e continuano a parlare più volentieri con le creature che con
i cristiani...”.
Ed in questo percorso di ritorno alla
vita in campagna non è un caso che l'autore dedichi l’intera introduzione del
volume a descrivere la storia del ‘suo’ ulivo, dal rametto di pianta di oliva
razzola raccolto 25 anni prima alla non semplice talea realizzata, dal piccolo ulivo delicato e cagionevole,
cresciuto in ambiente casalingo e salvato dalla morte certa con l’intervento di
un (costosissimo) ‘curatore supremo’ alla produzione di ben 4 barattoli di
olive razzole in salamoia, fino al nuovo intervento dell’esperto per poter fare
uscire di casa e portare con sè nella nuova abitazione quella pianta ormai
troppo cresciuta. “Il mio ulivo è rinato, – dice Maggiani- brutto come il
peccato, storto e arruffato, ma vegeto, cosciente, promettente della mia stessa
tardiva promettenza, zoppa e cagionevole, ma non è che siamo stati sempre
così?”
Ma la rosa? E la zecca? Il perchè della
loro presenza da protagoniste fin dal titolo lo lascerò scoprire a ciascuno di
voi, vista la natura di questo scritto come invito alla lettura del nostro
autore che, credo per primo al mondo, si autodescriva come ‘strafatto di
mimosa’.
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