Sarà un caso (o forse no!), se la
Repubblica delle Idee-2015 ha coinvolto proprio Genova, cogliendola
all’indomani dell’avvenimento che la conferma una volta ancora ‘laboratorio’ di
nuovi possibili equilibri, quand’anche squilibrati.
Il riferimento abbastanza trasparente è
il passaggio del governo della Regione Liguria dal centro-sinistra al centro
destra. Stavo per denominare questo mutamento come un esito in ‘controtendenza’
–basterebbero, a suffragare tale denotazione, le citazioni difensive del 5 a 2,
o ancora quelle quasi trionfalistiche del 17 a 3 nel calcolo delle colorazioni
dei Governi Regionali- ma ritengo invece che la disaffezione al voto e il
chiaro segnale di ribellione uscito dalle urne siano invece perfettamente ‘in
tendenza’ con la voglia, la necessità e l’urgenza di ‘ripensare il mondo’.
E se è vero, come recitava uno degli
slogan dell’iniziativa di Repubblica, che ‘un altro futuro è possibile’, è
altrettanto vero che non è la sommatoria dei resoconti delle decine e decine di
conferenze succedutesi dal 4 al 7 giugno che ci possono restituire il vero
spirito dell’evento, ma è il puzzle composto da altrettante narrazioni
intrecciate con i percorsi dei singoli che può avvicinarci maggiormente alla
comprensione di un presente disarmante per la costruzione di un futuro degno di
essere vissuto. Il mio è uno di questi possibili percorsi. Molte sono le
personalità presenti che avrei ascoltato volentieri: da Saviano a Petrini, da
Morozov a Piano, da Recalcati a Fitoussi; così come avrei voluto almeno
salutare il mio prof. di storia all’Università Antonio Gibelli, il bravissimo ‘padre’
di Julia Giancarlo Berardi e il coraggioso amico e magistrato Enrico Zucca.
Ma tutto non si può fare e attenendomi
alle 4 prenotazioni on-line concesse dall’organizzazione mi sono costruito un
percorso personale di tutto rispetto; avviatosi sabato 6 giugno con Jeremy
Rifkin, è poi proseguito domenica 7 con una successione da brivido che mi ha
consentito di ascoltare ed applaudire Eugenio Scalfari, Luis Sèpulveda e Tahar
Ben Jelloun.
Di Jeremy Rifkin ho ancora sul comodino
la sua ultima opera del 2014, ‘La società a costo marginale zero’, e in
libreria il suo contributo del 2004 ‘Il sogno europeo’; ciononostante decido di
portare con me ‘La terza rivoluzione industriale’ del 2011 del quale ho approfondito
le parti sulle nuove narrazioni (non per caso) e sulla scuola da ri-fare.
All’interno un ritaglio di Repubblica (ça
va sans dire!) del 1 giugno 2012 su ‘Idrogeno e auto elettriche – il futuro
secondo Rifkin’. Perchè parlo di questo volume invece dello storico ‘La fine
del lavoro’ del 1995 che dà il titolo alla conferenza? Intanto perché lo stesso
Rifkin lo ha citato almeno un paio di volte, con mia grande soddisfazione, e
poi perché è praticamente l’unico volume ad essere stato autografato, cogliendo
Rifkin un po’ di sorpresa pochi minuti prima dell’incontro. Al termine dello
stesso sarebbe stato impossibile perché, non so se infastidito dalle telecamere
e fotografi che ha fatto arretrare più volte, si è allontanato più veloce della
luce senza neanche attendere che gli applausi scemassero, incurante agli inviti
di Riccardo Luna.
Una conferenza, quella di Rifkin, che ha
cercato di descrivere il nuovo modello economico, i sette cambi di paradigma,
le tre tecnologie fondamentali (Comunicazione, Energia, Logistica e mezzi di
trasporto) per delineare “l’Internet delle cose”, prefigurato come contesto
capace di collegare “ogni cosa con tutti in una rete globale integrata.“ Ma
sono le esemplificazioni di quanto lo sviluppo sia accelerato a rendere meglio
l’idea. Come quando ha fatto l’esempio utilizzato con il vice-premier cinese di
un odierno cellulare da venticinque dollari che ha più capacità di calcolo dei
super computer che hanno mandato l’uomo sulla luna. O quando ha semplicemente
constatato che il raddoppio dei bit di potenza di anno in anno era
semplicemente impensabile negli anni quaranta. Certo, sentirlo passare dai
colloqui con il vicepremier cinese alle indicazioni fornite alla cancelliera
Merkel, dalla prossima diffusione virale delle stampanti 3D alla possibile
eliminazione dell’80% dei mezzi di trasporto, lascia parzialmente perplessi sul
fatto che si possa trattare di scenari futuri o futuribili. Poi lo sento
parlare della sharing economy, della
sempre minore necessità per muoversi di possedere un’auto in articolare da parte
dei giovani ma non solo, perché le si condivide per viaggiare insieme ed è
sufficiente una specifica app per
farlo; e ricordo un identico discorso fatto da mio figlio pochi giorni prima
nel descrivermi come viaggia la maggior parte dei suoi amici, e penso che
allora è proprio vero: Rifkin non sta parlando del futuro ma del presente, che
non sempre è facile scorgere!
Con Eugenio Scalfari, il giorno dopo,
parto da casa con due piccoli libri per me molto significativi: “L’uomo che non
credeva in Dio” (del 2009) e “Racconto autobiografico” (del 2014) entrambi
colmi di linguelle colorate a segnalarne i passaggi più significativi. Dato
l’interesse autobiografico di tutti e due i testi, ho realizzato a suo tempo
delle presentazioni pubblicate sul sito della Libera Università dell’Autobiografia
di Anghiari: ricevere delle email personali di apprezzamento da parte
dell’autore è stato per me estremamente gratificante, così come poterlo
salutare personalmente al termine dell’incontro. Il suo One Man Show alla presenza del numeroso pubblico giunto al Teatro
Carlo Felice in un orario non così favorevole (le 12) è intitolato ‘Novant’anni
di passione’ ed è tutto il secolo scorso ad essere stato percorso di slancio
dall’azione civile, politica e culturale di un uomo, per sua stessa ammissione,
animato dalla curiosità. Non casualmente i discorsi ‘seri’ sui 40 anni di
Repubblica o sui 60 anni dell’Espresso –i ‘suoi’ giornali- si intersecano con
le considerazioni ‘vitali’ sull’uomo fra Dio e la Natura (“L’ho detto a Papa
Francesco. Noi ci siamo inventati Dio e la nostra specie animale finirà, così
come ha avuto un inizio; Dio muore con noi perché è nato con noi, ce lo siamo
inventati.” “…e insieme a noi, anche il girasole vuole sopravvivere orientando
la sua corona, ed anche l’albero con le radici che si muovono a cercare l’acqua
e le fronde in cerca della luce”). Avvincente e potente la descrizione della
gara fra una Repubblica neo-nata ed un Corriere della Sera all’apparenza
invincibile, che viene surclassato nel giro di 4/5 anni; curiosa e particolare
la rivelazione di un Sandro Pertini che, dalla Presidenza della Repubblica,
due-tre volte alla settimana telefona a Scalfari in redazione, si fa mettere in
viva voce, e partecipa commentando al Comitato di Redazione del giornale; tenera
ed elegante ad un tempo la risposta alla domanda quantomeno indelicata
rivoltagli dall’intervistatrice sul quando si ‘fosse sentito vecchio’ (cito
testualmente!), nell’indicare i 6/7 anni come data probabile visto il suo forte
timore per le dimensioni conflittuali in famiglia ed il farsi garante del
rapporto fra i propri genitori. “La classe non è acqua”, avrei voluto dirgli a
voce alta, ma è un pensiero che ho tenuto per me fino ad ora, facendolo
echeggiare solo oggi, nero su bianco.
Per quanto riguarda Sepulveda,
abbandonati in casa gabbianelle, gatti, topi e lumache, mi sono armato del suo
libro più biografico ed autobiografico, edito in Italia nel 2013, “Ingredienti
per una vita di formidabili passioni.” “Chissà che non riesca a farmelo
autografare”, ho pensato fra me e me, fino a cinque minuti prima dell’inizio.
E’ infatti al Carlo Felice che realizzo quanto non avevo visionato sull’email
inviata dall’organizzazione mentre ero all’incontro con Scalfari: Sepulveda non
è partito dalla Spagna causa le avverse condizioni meteo, ed è però ugualmente
presente, intervistato da Concita De Gregorio, via Skipe. Non è la stessa cosa,
ma la bravura dell’intervistatrice e la naturale simpatia mista ad un costante
atteggiamento resiliente del ‘compañero
Sepulveda’ rendono l’incontro virtuale ugualmente appassionante. Dall’essere
capaci di “cadere, rialzarsi e non perdere l’allegria” all’esperienza di
‘Podemos’ come enorme esperimento di moderna democrazia; dalla storia
dell’Uzbeko muto –in realtà peruviano e fintamente senza parole solo per
evitare il rigore della polizia sovietica- all’amico panettiere di Amburgo il
cui tavolo di lavoro che odora di pane è diventato da vent’anni il suo tavolo
da scrittore. Sono diversi i ricordi e le rievocazioni che si succedono e si
concludono con lo svelamento di una delle fonti principali della sua
inesauribile capacità narrativa: e cioè la figura del nonno materno, anarchico
dell’Andalusia con una vita a dir poco avventurosa, trascorsa in diversi
continenti, che ogni giorno gli legge per ben tre ore il Don Chisciotte. Limite
praticamente inimmaginabile ai giorni nostri, osserva sconsolata
l’intervistatrice.
Infine, per l’incontro con Tahar Ben
Jelloun (e Gad Lerner), rinuncio a portare con me il suo libro su ‘La
rivoluzione dei gelsomini’ del 2011, per il semplice motivo che la copia che ho
in casa è già autografata e l’ho fatta dedicare a mio figlio che su questo
argomento ha svolto la sua tesi di Laurea magistrale. Mi reco quindi all’ultimo
incontro della giornata sul tema ‘Terre senza pace’ e subito l’attualità più
stringente del Governatore della Lombardia che minaccia di tagliare i fondi ai
Sindaci lombardi che si danno disponibili all’accoglienza dei profughi, prende
il sopravvento. Le 218.000 persone che hanno attraversato il Mediterraneo negli
ultimi anni e le oltre 1.000 accertate che sono morte sono il macigno che
incombe sulle coscienze dei presenti e Ben Jelloun non usa mezze parole: “Le
migrazioni aumenteranno, non c’è dubbio”. Vengono analizzati sia i fattori
economici che influenzano l’esodo di massa che quelli religiosi, ma sono le
forti analogie richiamate da Lerner fra la situazione attuale ed il periodo
antecedente la Seconda Guerra Mondiale, quando i regimi fascista e nazista
parlavano di ‘quote’ favorendo di fatto esodi di massa, ad inquietare tutti i
presenti. E Ben Jelloun che fa riferimento a come da 4-5 anni molti intellettuali
francesi stiano preparando il terreno per un nuovo razzismo, paventando
l’identità francese minacciata, chiude un’analisi puntuale e necessaria, che ha
il solo difetto di lasciare poco spazio alla speranza.
In conclusione, il mio percorso è stato
arricchito dall’Innovatore-Rifkin, dal Testimone-Scalfari, dal
Sognatore-Sepulveda e dall’Analista-Ben Jelloun. Con un anno di tempo a
disposizione per muovere qualche passo, sperando sia nella giusta direzione.
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