SPUNTI AUTOBIOGRAFICI DALLA
CONFERENZA DI MASSIMO RECALCATI
SU ‘LA PROFESSIONE DI PSICOANALISTA’
(Genova, Palazzo Ducale – 11 dicembre
2019)
di
Giorgio Macario
Perché più di un migliaio di
persone, fra le quali il sottoscritto, stanno comodamente sedute, ma in molti
casi scomodamente assiepate, intorno ad un professionista che parla della
psicoanalisi come di una professione non convenzionale? Perché Massimo
Recalcati non è uno psicoanalista qualunque, mi si potrebbe rispondere; o anche
perché è molto conosciuto e stimato, qualcun altro potrebbe sostenere; oppure perché
scrive libri non solo comprensibili, ma anche gradevoli.
Tutto vero. Ma ciò che penso affascini
di più, e per quanto mi riguarda questo è ciò che mi spinge a cercare di essere
presente ai suoi incontri pubblici anche al termine di giornate di lavoro
abbastanza impegnative come l’odierna, è
la sua capacità di parlare agli altri partendo dalla sua personale esperienza
della vita magistralmente intrecciata con i pensieri e le riflessioni di psicoanalisti,
di filosofi e di studiosi che alla stessa vita hanno cercato di restituire un
senso più compiuto.
E’ per questo che, nel tentativo
di restituire una piccola parte di quanto mi è stato concesso ascoltare in
quasi un’ora di conferenza da lui tenuta quest’oggi al Palazzo Ducale di Genova,
non riesco a far di meglio che condividere, con chi avrà la voglia e la pazienza
di leggere questo scritto, un parziale resoconto di quanto da lui riferito,
resoconto basato su appunti scritti in piedi appoggiato ad un muro , intrecciandolo
con alcuni passaggi della mia personale esperienza di vita.
A partire dal primo concetto
espresso sulla professione dello psicoanalista come mestiere impossibile,
citando Freud, alla stregua dell’arte politica del governare e dell’arte pedagogica
dell’educare. Come non condividere un tale avvio che mi ha riportato
immediatamente al mio primo testo significativo su “L’arte di educarsi” che,
ormai venti anni fa, citava nell’incipit
“Educare è un compito impossibile in un mondo così complicato”, per poi caratterizzare
l’educare anche come una necessità, una missione, un impegno sociale, una
competenza naturale e infine una professione?
Ma come se non bastasse, ecco
subito un secondo riferimento capace di tuffarmi nel passato remoto dei primi
anni della mia professione di educatore di comunità per adolescenti: in realtà,
dice Recalcati, fare lo psicoanalista può anche essere rappresentato come una
sorta di ‘non fare niente’, che Lacan avvicina alla tradizione Taoista. Come
dimenticare le parole di molti ragazzi ospitati in comunità: “Ma davvero ti
pagano per stare qui con me? Stai con me, non fai niente e ti pagano anche?”
per poi concludere: “magari anch’io da grande farò l’educatore…”.
Ed è a questo punto che il
racconto di Recalcati diventa profondamente autobiografico, a partire dalla affermazione
di Lacan che non si diventa psicoanalisti per vocazione, bensì accade un
incidente di percorso e lo si diventa come piano ‘B’. Dal percorso legato alle
aspettative del padre affinchè diventasse floricoltore, in qualità di primo
maschio della famiglia, Recalcati riferisce di essere passato ben presto all’aspirazione
di diventare poeta (riuscendo comunque a portare alla maturità un lavoro sulla
poesia friulana di Pasolini) e, una volta realizzato di non avere un simile
talento, filosofo. Buoni maestri e due borse di studio post laurea per l’Università
di Pisa e di Francoforte sembravano aver già tracciato la via maestra di una
possibile carriera universitaria, quando il suo personale ‘incidente di
percorso’ gli si propone davanti agli occhi con la prorompente intensità di un
incidente d’auto mortale che lo vede come primo soccorritore. Una figlia
sopravvissuta che dice alla madre morta: “mamma perdonami, ti ho uccisa”. Lo
spalancarsi di un abisso nel quale si sente travolto dall’angoscia che lo porta
a porsi la domanda di una vita: proseguire o cambiare?
L’analisi personale (e sentendo della
sua lunghezza ultra-ventennale il mio pensiero è corso al saggio di Freud ‘Analisi terminabile e interminabile’ che
avevo giusto letto per la prima volta in prossimità della conclusione della mia
psicoterapia psicodinamica) e l’interesse per l’inconscio testimoniano quindi
la solida verità che si diventa psicoanalisti perché si sta male, e si è tenuti
non solo a conoscere il proprio inconscio, ma occorre ‘diventare’ il proprio
inconscio. Tenendo presenti diverse affinità di questi percorsi con le
esperienze spirituali, citando le ‘Confessioni’ di Sant’Agostino.
Chissà se qualcosa di simile,
penso a questo punto, mi è capitato nella scelta post-diploma scientifico che
mi ha portato a preferire gli studi umanistici, sociali e psicologici alle
aspettative materne che mi volevano, in quanto primogenito maschio, ingegnere,
o alla capacità attrattiva dell’impegno di mio padre come stivatore e direttore
di sbarchi e imbarchi nel porto di Genova, dopo diversi anni della mia adolescenza
passati a condividere con lui piccole parti del suo impegno.
Ma è il ‘tripode freudiano’,
citato da Recalcati come base della professione di psicoanalista, a distogliermi
dai miei pensieri: sapere tecnico,
analisi personale e supervisione appaiono come altrettante architravi dell’impegno
professionale. Un richiamo alla razionalità sistematizzante, subito accompagnato
da un risvolto profondamente emotivo che attraverso la citazione di Fabrizio De
André, poeta genovese (‘Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior’),
richiama la passione dichiarata per le storie dei pazienti, una passione per
ciò che è storto, non è dritto, è imperfetto. E come non riconoscere nella
successiva affermazione: “Amiamo le cause perse, perché siamo cause perse” una
sensibilità molto particolare? In un lampo, decenni di impegno in ambito
educativo, sociale, psicologico e psicosociologico, ma anche formativo e giuridico,
si prestano ad essere indagati con una nuova chiave di lettura.
Ed è così che le successive
affermazioni sull’importanza dell’onorare la parola, dell’ascoltare e dello
stare in silenzio per poterlo fare in maniera adeguata, onorando le parole di chi
parla con l’assenza di giudizio di un atteggiamento non valutante, non possono
che richiamarmi le molte assonanze con il patto autobiografico che nella Libera
Università dell’Autobiografia di Anghiari si applica nell’ambito della
scrittura di sé.
Per giungere, quindi, alla significativa
conclusione con un aneddoto, tratto dalla biografia di Freud scritta da Ernest
Jones, in merito ad una conferenza di Freud negli Stati Uniti nella quale un
disturbatore si mette a rumoreggiare e viene ripreso dal rettore; questo continua
imperterrito e il rettore lo fa
accompagnare fuori dalla sala scortato dagli uscieri; ma ancora si sentono
colpi sulla porta della sala e il rettore, spazientito, appare determinato a
chiamare la polizia, quando Freud interviene per dire ‘no, facciamolo entrare e
facciamolo parlare’, intendendo: avrà delle ragioni per protestare così
tenacemente e dovremmo ascoltarlo, come dovremmo fare con le parti di noi che
faticano a farsi ascoltare. Le voci esterne e quelle interne a questo punto si
fondono e mi avvio all’uscita pensando che è proprio l’essere capaci di
ascoltarci fino in fondo che ci può aiutare ad ascoltare gli altri.
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