E' la prima volta che ospito sul mio blog uno scritto dell'amico e collega Duccio Demetrio, fondatore e animatore della Libera Università dell'Autobiografia, che rispondendo alla richiesta di documentare il suo intervento su 'Realtà e finzione in autobiografia' al recente Festival dell'Autobiografia di Anghiari, ha legato il tema trattato a quanto accaduto in questi giorni. La vicenda riguarda Loris Bertocco e la morte assistita cui è andato incontro con grande dignità.
Mi è sembrato importante consentire fin da subito la diffusione di questo scritto per rendere omaggio alla sua testimonianza di rara lucidità.
Duccio
Demetrio
REALTA’ E
FINZIONE IN AUTOBIOGRAFIA
A poco più
di un mese dal Festival dell’
Autobiografia.
Oggi
è 12 ottobre.
Credo
che in molti abbiano letto su la
Repubblica di oggi le ultime parole di Loris Bertocco, che ha “dovuto”
scegliere di affidarsi alla morte assistita, naturalmente non in Italia. Quando ogni
speranza, l’energia vitale già precaria non potevano concedergli più alcun
domani. “Mi è difficile immaginare –
scrive nel saluto – il resto della mia
vita in modo minimamente soddisfacente, essendo la sofferenza fisica e il
dolore diventati per me insostenibili e la non autosufficienza diventata per me
insopportabile”. In un tragico
paradosso, poiché l’ arbitrio libero della scelta non dovrebbe
avvenire sotto un’ urgenza dovuta a costrizioni che ci impediscano il diritto
alla vita. Tanto più, come è stato per Loris - e non soltanto per lui -,
ancora nella lucidità di una coscienza che gli ha consentito di lasciarci una
scrittura autobiografica esemplare. Non soltanto per la realtà dei fatti
personali esposti - rispecchiati in chi lo conobbe - che ben poco affidano al sospetto che si sia in presenza di qualche tentazione a
fingere, alterando talune verità: del corpo straziato, della cecità, dell’
abbandono. Nulla di tutto ciò può darsi: quando, come scrisse pochi giorni
prima della iniezione letale: “Vi sono
situazioni che evolvono inesorabilmente verso l’ insostenibilità”. E queste
vanno rese note, tanto più se in gioco vi siano persino responsabilità
pubbliche che concorrono ad acuire le disumanizzazioni del tempo presente. Denunciate e vissute da
quest’ uomo in prima persona. Con dignità, senso morale, nella sfida durata
quarant’anni con irrisolvibili problemi superati fino ad un certo punto. Fino al commiato scelto in questo
mese di ottobre, la cui luminosità irreale, in una solarità sfrontata per lui,
per una moltitudine di sofferenti di cui
non sappiamo, invece non sembra voler consegnarci all’autunno.
La lettera
inizia così: "Sono nato a Dolo il
17 giugno del 1958. Il 30 marzo 1977 - frequentavo l’ Istituto tecnico, avevo
18 anni – ho avuto un incidente stradale: un’ automobile mi ha investito mentre
ero in ciclomotore. C’è stata una frattura delle vertebre C5-C6 e sono rimasto
completamente paralizzato. Purtroppo fin da ragazzo ho avuto anche problemi di
vista. Dal 1987 sono stato classificato ipovedente; dal 1996 cieco assoluto.
Tra le cose importanti della mia vita c’è stata una notevole sensibilità per i
problemi sociali e politici. Nel 1990 sono diventato consigliere comunale per i
Verdi per alcuni anni nella città Mira
[…] Nel 1996 ho conosciuto Annamaria, che è diventata mia moglie nel giugno del
1999 […] La situazione complessiva ha portato nel 2011 mia moglie a non
riuscire più ad affrontarla. Il fatto che dovesse cercare faticosamente quasi
da sola la soluzione ai problemi quotidiani l’ha portata ad una decisione
estrema, cioè la richiesta di separazione […] Sono convinto che se avessi
potuto usufruire di assistenza adeguata avrei vissuto meglio la mia vita,
soprattutto questi ultimi anni, e forse avrei rinviato un po’ la scelta di
mettere volontariamente fine alle mie sofferenze. Ora è arrivato il momento.
Porto con me l’ amore che ho ricevuto e lascio questo scritto augurandomi che
possa essere d’aiuto alle tante persone che stanno affrontando ogni giorno un
vero e proprio calvario […] Proprio perché amo la vita credo che adesso sia
giusto rinunciare ad essa."
Uno
scritto autobiografico, il suo. Limpido, sferzante, autenticamente connesso con
la tradizione classica, migliore e pedagogica – ogni autobiografia è un’
esperienza del resto di formazione - di un genere che, ben prima di essere
letterario, è narrativo. Poiché se non tutti possono permettersi di affinare l’
arte del racconto, tutte e tutti invece - anche con poche righe - sono in grado
di esprimere chi siano stati, come abbiano vissuto, che senso abbia avuto per
loro, per noi, una vita di pochi anni o lunga fino all’eccesso. E’ una lettera
contrassegnata da un lascito morale inequivocabile,
che percorre la realtà “vera” del suo passato, della sua resistenza a non essere sconfitto. A tratti addolcita
dalla gratitudine verso chi lo aiutò a non smarrire, nelle sue condizioni, il
filo di un legame fortemente intrecciato a scelte doverose nell’arco di anni
fattisi sempre meno ancora possibili. Con gli altri, con il bisogno tenacemente
perseguito di sapere e di lottare non soltanto per sé. Loris ci lascia una
lezione di realismo autobiografico assoluto.
Forse, chissà, occorre giungere al
crinale della morte o averlo più volte percorso, sia essa cercata oppure attesa
ad occhi ben aperti, per scrivere le torture della propria vicenda come lui ha
saputo. Nel coraggio, nella più disarmata rassegnazione, nella rivolta contro
un destino che egli seppe e poté, mai da solo, piegare alla propria volontà di
continuare a respirare nel risveglio doloroso, ma ottimista, dei giorni. Possiamo,
in autobiografia, adottare stili e sottogeneri diversi per raccontarci; possiamo
alterare qualche ricordo non per mentire, ma per consentirgli di apparire più
letterario e convincente; o, ancora, potremo cercare di apparire quel che
avremmo voluto essere. In tutti i casi, il canone autobiografico non verrà
tradito o eccessivamente manipolato quando alcune note esistenziali scandiscano
le pagine in trasparente evidenza. Quando compaiano date salienti, evocazioni di luoghi ( qui: “Abbiamo ampliato e ristrutturato la mia
vecchia casa;…”); quando figure
determinanti vengano evocate con gratitudine (qui: “Mio padre è mancato, mia madre ha avuto problemi di salute e non ha
potuto darmi la sua assistenza come nei periodi precedenti”). O quando
nella storia irrompe l’evento che ti tronca un avvenire promettente;
la scoperta determinante della amicizia, dell’amore, della solidarietà. E
quindi, così come ci sono i fatti,
comprovabili da chi ti conobbe ( senza i quali, un’ autobiografia può ridursi
soltanto ad un dialogo con se stessi:
disincarnato, consolatorio, inafferrabile); anche i sentimenti diventano tali, se tracciano in profondità i fili conduttori di una esistenza diversa, diversamente
capace di sopportare l’ infelicità, che è simile tuttavia a quella di ognuno di
noi. Le parole secche, la concisione sintattica, l’ eco inequivocabile di un’
oralità affidata alla penna altrui, gli accenni essenziali per dirsi ed essere
intesi, scorrono rapidamente e celebrano il compito ancestrale della scrittura.
In che altro consiste se non nell’essere riusciti a incidere su una pietra,
una pergamena, un foglio o uno schermo, il disegno di una storia, che non ha
più tempo per soffermarsi su particolari inutili? Anche se, probabilmente, il
temperamento di Loris avrebbe voluto lasciare spazio alle “ali della poesia”, avrebbe voluto avere
più tempo per lasciarci indizi di quanto sia riuscito a vivere momenti di
gioia, di entusiasmo, di godimento. Ma, egli, ha dovuto scrivere il proprio memoriale in forma d’epitaffio, sacrificando la bellezza, parole più tenere e amabili. In tale atto
definitivo ha potuto solamente gridare senza enfasi la propria autosufficienza,
grazie tuttavia all’aiuto di uno scrivano di cui non conosciamo il nome. Il
cui soccorso prestato, ben oltre le quotidiane incombenze non possiamo che
ringraziare. Leggendo la lettera nella sua breve totalità (reperibile in
internet), ci imbattiamo in una testimonianza e in un testamento. Un’
autobiografia può essere lunga 5 pagine o 500, ciò che conta è che sia
concepita – come questo estremo saluto – al fine di farci intendere l’
esistenza di una trama tessuta con la
ferocia della solitudine che Loris non ci sbatte in faccia; con le cose
inequivocabili, con gli incontri fatali e le situazioni del mondo reale capaci
di dettarci il nostro destino. In una lotta arcaica tra la necessità, l’irruzione del caso, la forza di reagire con la volontà di esistere. Eppure, la sua
realtà, il suo passato, il suo presente ormai ridotto a poche ore ancora, hanno
saputo comunque protendersi verso bagliori di finzione. Qualora si intenda
tale registro narrativo non nei modi scaltri della menzogna ad effetto, della
fantasticheria avventurosa, dell’immaginario rocambolesco, della evasione sfacciata
dalla storia personale.
Loris Bertocco agisce il suo realismo finzionale (l’unico dignitoso
e nobile in autobiografia) nel
proiettarsi e proiettarci verso il futuro. Nel crederci, nella sua ora ultima affidandolo
ad altri, a noi che restiamo:
“Il mio impegno estremo, il mio appello, è
adesso in favore di una legge sul “testamento biologico” e sul “fine vita […]
Ringrazio tutti coloro che mi sono stati vicini” e che proseguiranno la battaglia per il
diritto ad una vita degna di essere vissuta e per un mondo più sano, pulito e
giusto”. Loris ha saputo dimostrarci che non vi può essere separazione tra
realtà e finzione quando l’ autobiografia trasudi verità umana e umanità; bensì
riconciliazione, alleanza, fecondità creativa. Quando la seconda protagonista
si mostri veicolo e viatico dei nostri desideri realizzati o da consegnare a
chi resta come sogni capaci di produrre realtà e storia di libertà,
emancipazione, giustizia civile per
tutti.
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