Un filo autobiografico dal giovane Ciotti ai 50 anni del Gruppo Abele
L’arrivo di don Luigi Ciotti al Festival
dell’Autobiografia di Anghiari organizzato dalla Libera Università
dell’Autobiografia in questi primi giorni di settembre è un avvenimento già di
per sé, data la fama del personaggio.
Esordisce dicendo che, in quanto nato a Pieve di
Cadore sulle Dolomiti, si considera un ‘Patrimonio dell’Umanità’ alla stregua
delle sue montagne natie. “Non è che sarò, in qualche modo e per
contaminazione, da salvaguardare anch’io?” ironizza in apertura dell’incontro,
e un brivido legato alle recenti rivelazioni sui gravissimi rischi che ha corso
e corre tuttora, percorre la schiena delle oltre 200 persone stipate nel
teatro.
Ma è Torino che fa da sfondo all’infanzia di un
giovane Luigi trasferitosi con la famiglia al seguito degli impegni lavorativi
del padre. Che avrà si un lavoro dignitoso, ma che per quanto riguarda
l’abitazione dovrà accontentarsi di una baracca posta nell’area dove sorgerà il
Politecnico di Torino.
La 1° elementare di Luigi inizierà con un mese di
ritardo, perché la mamma dovrà faticare per destinare le poche risorse
economiche all’acquisto dell’indispensabile grembiule nero con fiocco smisurato
che pendeva da tutte le parti. “Potete ben capire come mi sentissi diverso
dagli altri, e dicessi quindi in giro di abitare in un palazzo non ben
identificato che celava la realtà della baracca in cui stavamo.”
“Ma la scuola, seppure in ritardo, inizia anche per
me. Certo non nel migliore dei modi. Mi mettono nel primo banco, i mie compagni
in fondo alla classe si mettono a fare chiasso, e la maestra non trova di
meglio che rivolgersi a me con parole di rimprovero. Al mio gesto di stupore ad
indicare perché si rivolgesse proprio a me –gesto che nella sua semplicità fa
ridere tutti i compagni- lei dice: “Ma cosa vuoi tu, montanaro?!”. Capite,
diceva proprio a me, patrimonio dell’umanità! Erano gli anni ’50, mi sentivo in
torto, ma non avevo fatto nulla. Sarà per questo che, afferrato il calamaio che
mi stava di fronte sul banco, senza troppo riflettere, gliel’ho scagliato
contro e, data la distanza ravvicinata, naturalmente l’ho presa in pieno.
Appena entrato, ero già espulso da scuola. Certo,
avevo sbagliato, ma a mio modo cercavo di comunicare. La figura più umana che
ho incontrato in questa occasione è stata quella del bidello, che mi ha preso
per mano e mi ha portato a casa.
Potete immaginare come facilmente le diversità si
trasformino in avversità. Il compagno di buona famiglia –lo chiameremo Cicci,
ma potrebbe essere Fuffi, Lilly, Giuggi e così via- descrive l’episodio alla
propria madre che gli intima di non frequentare il ‘compagno cattivo’.
Cambierò anche scuola e mi trasferirò poi con mio
padre a Orbetello in Maremma dove lui andrà a fare il capocantiere, per poi
rientrare dopo qualche anno a Torino. Ma di una cosa mi sono convinto in quegli
anni durante i quali spesso mi vestivo con gli indumenti dignitosi ma dismessi
della San Vincenzo –forse gli stessi di Cicci, Fuffi e Giuggi-: tutti corrono
ed etichettano, ma nessuno ascolta. Come nel caso del ‘lancio del calamaio’,
gesto che nessuno, infatti, ha cercato di cogliere. E ci sono stati anche
momenti in cui mi è sembrato di potermi smarrire.
Dopo le elementari, ‘naturalmente’ consiglieranno a
mia madre di optare per l’avviamento professionale e non certo per le medie con
il Latino (sembra di ascoltare Don Milani), e questo, con il mio diploma di
Radiotecnico, condizionerà positivamente anche il mio atteggiamento di costante
vicinanza alla strada, che mi ha insegnato il cammino e che mi vedrà a 17 anni
avviare il percorso che porterà alla fondazione del Gruppo Abele.
E arriviamo al secondo episodio che considero centrale
per le mie scelte di vita. Passavo ogni mattina per Corso Vittorio Emanuele e
un giorno ho visto un signore con addosso ben tre cappotti che stava sempre su
di una panchina. Leggeva in continuazione dei libri e con una matita rossa e blu,
sottolineava. Non sapevo cosa fare, a 17 anni. Dopo diversi giorni mi sono
fatto coraggio e gli ho detto se voleva che gli prendessi un caffè - tanto per
intaccare quel senso di solitudine, mi son detto tra me e me-. E lui: zitto. Ho
pensato che poteva non piacergli e gli ho detto ‘Magari un tè?’. E lui: zitto.
A quel punto ho pensato potesse essere sordo, ma la testa che si girava ad una
frenata di auto, che passava lì vicino, mi ha convinto che non era così.
Testardo io, testardo lui, la cosa è proseguita per 12 giorni. Al dodicesimo
giorno le sue prime parole sono state: “Io ti ringrazio per la tua amicizia”.
Era un medico, amato e rispettato dalla gente che per vicissitudini gravi era
finito a fare il barbone sulle panchine. Ma non pensava a sé, le sue
preoccupazioni erano altre. “Sono stanco, sono vecchio e sono malato. Ma tu non
pensare tanto a me. Vedi quei ragazzi che entrano in farmacia? –e mi indicò
l’entrata della farmacia lì vicino- si procurano dell’alcool, poi vengono qui a
prendere dei farmaci e so che poi si fanno ‘la bomba’. E’ per loro che dovresti
fare qualcosa.”
E’ da questo incontro -e sono convinto sia stato un
‘dono’- che ho imparato che le tecniche sono importanti, ma il primo strumento
da utilizzare è la relazione, l’ascolto. Certo studiare e documentarsi è necessario,
ma le poche parole stentate scambiate con quest’uomo sono state determinanti. Una
mattina sono passato, e non era più sulla panchina. Ma non posso certo
dimenticarlo: carità e giustizia sono l’eredità che mi ha lasciato. Tutto
quello che ho fatto in seguito sono convinto sia anche una risposta al compito
che mi è stato affidato.
Due anni e mezzo dopo nasceva il Gruppo Abele, che
l’anno prossimo, in coincidenza con i miei 70 anni, di anni ne compirà 50. Non
avevamo niente, ma da quel niente è venuta la strada, la comunità, la pizzeria
‘il punto della situazione’. Certo abbiamo lasciato qualche affitto da pagare,
ma a persone che potevano permetterselo, e che in molti casi, anni dopo, si
sono sentite anche partecipi di quel contributo quasi ‘obbligato’.
La strada era la grande protagonista: non c’è un io,
c’è un noi. (richiamo al testo più autobiografico scritto da Ciotti, ‘La
speranza non è in vendita’, del 2011). Qui, oggi, non c’è Luigi Ciotti, perché
insieme a me c’è tanta gente. Soprattutto gli ultimi ed i poveri che mi hanno
insegnato. Ed anche la strada mi ha insegnato due cose: la fedeltà alle persone
e la fedeltà a Dio, con il Vangelo e la Costituzione Italiana come fari. Ed
allo stesso tempo ho imparato che per combattere l’anoressia esistenziale che
affligge tanta gente che ha bisogno, occorre riempire la vita di vita.
In seguito, avevo già le mie cose, i diversi impegni
che riempivano le mie giornate e, pur avendo già litigato con i preti, ho
iniziato un percorso per vocazioni adulte a Torino. Ma in Seminario, non so
quante volte ho fatto ‘morire’ tutti i miei parenti per potermi allontanare! Poi,
alla sera, mi allontanavo senza permesso perché raggiungevo i ragazzi. Ed è in
queste occasioni che ho realizzato che ci sono le spie anche fra i preti. Ma
era inconcepibile troncare tutto. Ho poi saputo che era stato incaricato il vice-rettore
di seguirmi e vedere dove andavo, ma questi, una volta arrivato ai confini del
quartiere, se l’era data a gambe. Una sera, mentre scavalco una finestra, mi
trovo il rettore davanti che, inaspettatamente, mi disse: “la prossima volta,
chiedimi la macchina”.
Lo stesso Vescovo Padre Michele Pellegrino, mi ha
sempre mostrato grande vicinanza. Io il gruppo l’ho voluto laico, anche se poi
sono diventato sacerdote. Quando sono stato ordinato sacerdote, la chiesa si è
riempita di ragazze di strada, ragazzi del carcere accompagnati e varia
gioventù con minigonne e vestiti di ogni foggia, come usava in quegli anni.
Padre Michele Pellegrino già allora portava una croce di legno (l’allusione
alle innovazioni di Papa Francesco è chiara), e nonostante ciò ha voluto
togliersela per indossarne una artigianale fatta dai ragazzi e legata da spago
e filo. I segni sono sempre importanti, ed i ragazzi si sono riconosciuti,
anche perché il Vescovo ha narrato questa celebrazione, semplificandola per
renderla comprensibile.
Ma è alla fine della liturgia che mi ha fatto il dono
più grande: guardando tutti i ragazzi ha detto loro: “Non lo mando in giro, ve
lo lascerò: la sua parrocchia sarà la strada.”
Così il noi al centro è diventato un ‘centro droga’ in
via G. Verdi a Torino: in una città che diceva che non c’era droga, tramite il
coinvolgimento delle farmacie, in 18 mesi sono state seguite ben 4.000 persone!
Cercando di superare una legge che prevedeva Ospedale Psichiatrico o carcere per
i tossicodipendenti, un vero e proprio mostro giuridico; un posto dove non si
denunciava e si tenevano le porte aperte. E poi i SERT e la nascita del
cartello ‘Educare e non Punire’. E poi ancora il carcere per i minorenni, nel
quale, con l’aiuto del magistrato Umberto Radaelli, siamo andati a dormire con
i ragazzi incarcerati: naturalmente siamo stati tutti denunciati e l’esperienza
è stata bloccata. E l’AIDS, con la nascita del Coordinamento Nazionale delle
Comunità di Accoglienza e della Lega Italiana della Lotta all’Aids,
organizzazioni che ho presieduto nelle fasi di avvio, nell’ambito delle quali
si sono dovute prendere delle posizioni realistiche ad esempio rispetto al tema
dei preservativi, anni dopo assunte anche dal Cardinal Martini.
Ma il noi ha assunto anche le vesti della reazione
alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, con la morte di Falcone e Borsellino,
quando ho capito che non bisognava lasciare soli coloro che sono impegnati in
queste situazioni. Ed ecco la nascita di NARCOMAFIE e poi quella di LIBERA,
organizzazione che conta ormai ben 1.600 associazioni aderenti a livello
nazionale. Per rendersi conto che la mafia è un problema trasversale che non ha
bisogno solo di risposte emotive, ma che va affrontato ponendosi tre grandi
obiettivi: il primo, occorre una vicinanza ai familiari delle vittime di mafia,
non solo nei giorni vicini alla tragedia ma anche in quelli lontani; il
secondo, ci vuole molta più scuola e molta più cultura; il terzo –sempre più
fondamentale- occorre portare via i patrimoni ai mafiosi, sequestrarli e farne
un uso sociale. Era questo il sogno di Pio La Torre, autore della legge
Rognoni-La Torre, che viene ammazzato quattro mesi prima che la legge venga
approvata. Libera, da parte sua, ha raccolto un milione di firme per chiedere
un uso sociale di questi beni sequestrati: ed a tutt’oggi più di 1.000 persone
lavorano producendo e commercializzando i prodotti sotto il marchio LIBERA
TERRA.
La forza della mafia non sta infatti dentro
l’organizzazione, ma fuori: in tutti quei contesti dove si tollerano i soprusi
e le ingiustizie che vengono perpetrate. Sono infatti 400 anni che parliamo di
‘camorra’; 200 anni che parliamo di ‘cosa nostra’; 100 anni che parliamo di
‘ndrangheta’. E il problema siamo noi, perché è necessaria una rivolta delle
coscienze. Non basta commuoversi, bisogna muoversi, tutti.
E allora ancora la rivista Animazione Sociale, Il
Centro Ricerche e Documentazione del Gruppo Abele, l’Università della strada. E
il recente incontro fra Libera Università dell’Autobiografia e Gruppo Abele,
con una scuola estiva di educazione narrativa per la costituzione di un
archivio nazionale delle storie dei ‘senza storia’.
Occorre che ci siano più diritti e giustizia.
Io sono ancora qui, vivo. Ma questo importa
relativamente perché c’è sempre un noi. C’è anche un’altra Italia che sta
crescendo.
Possono anche ammazzarmi, con tutte le mie fragilità e
i miei limiti. La mia parte ho cercato e sto cercando di farla al meglio delle
mie possibilità, tentando, per quanto possibile, di mantenere la promessa
ideale fatta a suo tempo al signore sulla panchina.”
(a cura di Giorgio Macario)
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