lunedì 3 giugno 2013

Andare in BRODO DI GIUGGIOLE


Per andare in brodo di giuggiole
bisogna essere molto felici, gongolare dalla gioia,
andare in estasi o uscire di sé dalla contentezza.
Stati d’animo all’apparenza equivalenti
che nascondono in realtà infinite sfumature
di piacere, soddisfazione, beatitudine e godimento.
Ascetiche o epicuree, laiche o religiose, terrene o celesti,
potrebbero far assurgere le giuggiole a frutto della riconciliazione
per la riscoperta di radici comuni fra atei, agnostici e credenti.
Bulbi intrecciati che si nutrono
non di privazioni e sacrifici
bensì di benessere e appagamento.
“Un’utopia bella e buona!”, mi direte.
“Forse, o forse no…”, potrei rispondervi.

Parte da qui, da queste potenzialità infinite, la ricerca di una ricetta
per aiutarne uno e salvarli tutti.
Ma nessuna impresa è concepibile se non ci si prospetta
una meta agognata, una destinazione ambita o un traguardo disagevole.

Preludio.
In realtà la ricetta del brodo di giuggiole non esiste più.
La pianta, proveniente dall’Asia centrale, diffusa particolarmente in veneto,
potrebbe passare in un batter d’occhio dalla dimenticanza all’estinzione.
Tre anni fa, mentre cammino per il mio sentiero consueto,
mi accorgo che una pianta alta circa tre metri,
tutta irta di spine peggio di un cespuglio di more,
produce un frutto ovaleggiante che sembra un incrocio
fra un cappero e un’oliva gigante.
Il mio primo incontro ravvicinato con un giuggiolo.
Intercetto gran parte della produzione di quell’anno.
E’ ottobre, passiamo più di dieci giorni con la consorte a
pulire, lavare, bollire, disossare, spremere, mescolare ad alcool,
lasciare in infusione, filtrare, zuccherare, micro-filtrare
e infine separare quantità infinitesimali di essenza,
dosi appena più consistenti di una specie di marmellata
e quantità industriali di residui.
Assaggiamo questo nettare –buona l’essenza, ottima la quasi marmellata-
niente affatto convinti di aver riscoperto l’antica ricetta.
Anche perché, avendo effettuato decine di tentativi e operato altrettante variazioni estemporanee prima di giungere al risultato finale,
non saremmo minimamente in grado di riprodurla.
Conserviamo gelosamente un barattolino di quasi marmellata
che, essendo ottima, nominiamo seduta stante ‘brodo di giuggiole’.
Lo portiamo con noi ad un incontro familiare sull’appennino parmense e,
poco prima di sederci a tavola per iniziare il pranzo che sarebbe terminato
gustando quel tanto decantato nettare degli dei, il vasetto appoggiato sul tavolo per fare bella mostra di sé cade e si frantuma in mille pezzi.
Morale.
Il mitico brodo di giuggiole sarebbe rimasto tale
agli occhi di tutti i commensali.

Sconfortato dalla disavventura patita, l’anno successivo metto gli occhi su di una piantina di circa un metro che affianca la pianta madre.
Ma è ancora troppo grossa e di fianco a questa individuo un ‘piccolo’ di giuggiolo.
A febbraio, periodo ideale per queste incombenze, convinco il contadino a darmelo per trapiantarlo.
Per fare il brodo di giuggiole, ci vogliono le giuggiole.
Ma per avere le giuggiole, ci vuole un giuggiolo.
Decido così, dopo molto arrovellarmi, di iniziare la mia crociata personale
pur non sapendo se arriverò a fondare un movimento “Save the Jujube!”
Ad aprile l’avventura era già terminata. Il ‘piccolo’ di giuggiolo,
due stecchi secchi piantati in un grande vaso sul poggiolo,
aveva smesso di respirare clorofilla.

Sono passati due anni prima che un altro ‘piccolo’ abbia raggiunto un minimo di consistenza.
Dopo averlo ‘prenotato’ presso il contadino paziente,
sempre a febbraio ritento l’impresa.
Grande vaso, terra ricca, pollice verde
(non il mio naturalmente, bensì quello della consorte)
e il miracolo, questa volta, sembra sul punto di realizzarsi.
Dopo marzo, aprile, e quindi maggio e ora giugno,
l’altezza della piantina è già il doppio della misura del vaso
e le foglioline verdi oltrepassano i bordi in ogni direzione.
Le spine pungenti, così caratteristiche, sono sempre lì ma non si vedono quasi.
Piccole palline verdi cominciano a crescere alla base di alcune delle foglie,
all’incirca una per rametto.
Diventeranno già delle mini giuggiole in ottobre o bisognerà aspettare l’anno prossimo?
Non importa.
Siedo sul poggiolo, guardo il giuggiolo che cresce,
annuso una mentuccia appena raccolta e, mentre scrivo, sono sereno.
Anche se non posso fare a meno di pensare
che se riuscissi a trovare
una ricetta, una formula o una idea guida
manderei in brodo di giuggiole l’intero universo.
“Un’utopia bella e buona!”

“Forse, o forse no…”

Ps: un altro paio d'anni sono passati. Di giuggiole nemmeno l'ombra, ma la pianta cresce ed ha abbondantemente superato il metro d'altezza. Chissà che prima o poi non si possa ritentare l'avventura.

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