giovedì 3 settembre 2020

FORMARE CON LE STORIE DI VITA. Metodologie e strumenti nella formazione autobiografica. - di Margherita Primi e Giulia Spalla

 

Margherita Primi – Giulia Spalla

FORMARE CON LE STORIE DI VITA

(Quaderni di Anghiari,  Serie Blu N. 2 - Mimesis, 2020)

 




Recensione di Giorgio Macario 

 

Da formatore ‘di lungo corso’ nell’ambito di attività formative condotte prevalentemente in area psico-sociale ed educativa ho apprezzato la sistematicità nell’organizzazione del testo che le due colleghe Margherita Primi e Giulia Spalla, formatrice la prima e psicoterapeuta la seconda, hanno mantenuto: dalle questioni di metodo della prima parte, a quelle strutturali della seconda, per concludere con le indicazioni sugli strumenti della terza ed ultima parte.

Da estimatore del metodo autobiografico ho sentito una particolare vicinanza alle modalità progettuali proposte dalle autrici. Tali modalità sono assimilabili alle sperimentazioni prima e sistematizzazioni poi di percorsi connotati da un’impostazione di prassi-teoria-prassi, volte a contestualizzare ciascun intervento formativo.

Leggere “non crediamo in percorsi formativi a pacchetto, precostituiti”, mi ha riportato in particolare ai miei anni di progettazione e coordinamento delle attività formative nazionali per gli operatori delle adozioni internazionali, vero e proprio laboratorio formativo attraversato anche da una crescente sensibilizzazione alle metodologie autobiografiche.

Ma tutta l’analisi basata in particolare sulla delineazione del “formatore come facilitatore autobiografo” mi ha anche riportato alla mente l’indagine-monitoraggio sulle scritture di sé in Italia realizzata dalla LUA (Youcanprint, 2012). Non tanto per la convergenza fra contesti di scrittura autobiografica analizzati  nell’indagine citata e quelli trattati in questo quaderno, quanto perché già in quella sede, 10 anni fa, veniva prospettato come proficuo per l’analisi un ampliamento dell’indagine anche ai contesti di formazione orientati alla sensibilizzazione autobiografica.

Scrivono le autrici: “Soprattutto in percorsi come quelli di cui parliamo -che non sono laboratori di scrittura autobiografica, ma vere e proprie esperienze formative- è interessante avere la possibilità di crescere incontro dopo incontro.” Ora è pur vero che tale possibilità di crescita può naturalmente caratterizzare anche laboratori autobiografici che assumano tale obiettivo già in fase di progettazione. Ma è il porsi da parte delle autrici in contesti formativi articolati, e non nella meno complessa proposta di singoli laboratori autobiografici, che estende l’interesse delle riflessioni e degli strumenti da loro prefigurati; riflessioni e strumenti che possono rappresentare validi supporti sia per attività formative caratterizzate dal metodo autobiografico, sia per attività formative orientate alla sensibilizzazione autobiografica (e gioco-forza coesistenti con metodiche diversificate).

E’ così che gli esempi forniti dalle autrici su analisi preliminari e contrattazioni con la committenza non centrate esclusivamente sui bisogni, possono essere facilmente assimilate alla formazione desiderante di Massimo Bruscaglioni o alla svolta de ‘La scuola della vita’ di Giampiero Quaglino.

Ed ancora il caratterizzare l’intervento formativo come orientato alla costruzione di una ‘comunità discorsiva’ a partire dalle biografie lavorative, è almeno in parte assimilabile alla non semplice ma esaltante costruzione negli anni di ‘comunità di pratiche e di pensiero’ ad alta sensibilità autobiografica.

E si potrebbe proseguire in una descrizione più minuta che ciascun lettore-formatore potrà condurre in autonomia, tenendo presente questo quaderno per gli innumerevoli ed utili suggerimenti che fornisce, ma anche per un confronto con i molti strumenti della formazione autobiografica adattati a contesti formativi maggiormente orientati alle biografie professionali. 



LA CURA NELL'ACCOMPAGNAMENTO AUTOBIOGRAFICO. Klinè - di Maria Gaudio

 Maria Gaudio

LA CURA NELL’ACCOMPAGNAMENTO AUTOBIOGRAFICO

(Quaderni di Anghiari - Serie Blu  N. 3 -Mimesis, 2020)

 






Recensione di Giorgio Macario

 

 Maria Gaudio, di formazione filosofica e psico-pedagogica si è specializzata in Psicopedagogia della famiglia e perfezionata in Psicologia Clinica della Perinatalità. Ma, soprattutto, l’autrice è docente della LUA dove si è diplomata e specializzata in consulenza autobiografica.

Per questo non deve stupire se questo quaderno -e non libro, ci tiene subito a precisare l’autrice- si apre con un frammento di autobiografia che àncora alla propria infanzia, due parole irrinunciabili per l’aula Klinè, percorso di specializzazione nella scuola triennale ‘Mnemosyne’ della LUA: abitare e distanza. L’abitare dei continui riferimenti dei primi anni di vita di Maria all’interrogativo su dove si abitasse davvero (“Ora abitiamo qui?”), e la distanza osteggiata per molto tempo come condizione contraddittoria fra stare e andare, fino ad una parziale riconciliazione connessa ad una rima scoperta fra distanza e danza.

Prendono avvio da questi riferimenti autobiografici le osservazioni preliminari sulla comunità della LUA e su Klinè nel percorso triennale della scuola e le successive tre parti del quaderno orientate dalle calviniane ‘città invisibili’ di Eufemia, Tamara, Despina e Zaira.

La scrittura di sé come possibilità auto-formativa e auto-curativa porta a stare, nell’ambito della LUA e per dirla con Bauman, ‘individualmente insieme’, immaginandosi individui che rifuggono, però, da qualsiasi solipsismo. Il percorso di Klinè, inaugurato  da Duccio Demetrio e dalle sue riflessioni sulla scrittura clinica, che rappresentano un riferimento costante lungo tutto il testo, viene condotto dall’autrice a partire dal 2017 e viene descritto nei suoi cinque laboratori teorico-pratici che conducono ad una relazione di cura denominata ‘accompagnamento autobiografico-clinico.’

‘Amare la distanza’ è indicazione inappropriata solo in apparenza,  relativamente al passaggio auspicato dalla cura di sé all’aver cura dell’altro. Gli elementi caratterizzanti l’impresa autobiografica e la molteplicità degli aspetti inerenti la cura dominano la prima parte del testo. Nella seconda parte è la scrittura ad emergere come elemento ‘terzo’, vero e proprio attore fra il consulente-accompagnatore e il narratore-autore; le situazioni che potranno essere affrontate mediante la scrittura non dovranno essere dichiaratamente patologiche -e quindi di competenza dell’ambito medico o terapeutico- ma si andrà comunque incontro a “disagio, fragilità, marginalità, impedimenti motori, situazioni traumatiche, di perdita, di solitudine, di smarrimento.”

La scrittura autobiografica-clinica, quindi, pur non rivolgendosi alle malattie ma “alla fragilità che fa parte della vita”, richiede altresì “una formazione alla clinica della scrittura autobiografica”, che, in un’ottica di accompagnamento, fa diventare clinica la stessa scrittura autobiografica.

L’ultima parte viene quindi dedicata all’esplorazione di ulteriori distanze, come quella fra parola detta e parola scritta, dove è certamente quest’ultima ad essere “la specificità della nostra clinica e della nostra cura”; o ancora la distanza dello sdoppiamento e della bi-locazione cognitiva come “nozione centrale nella riflessione di Duccio Demetrio, ripresa e approfondita da numerosi altri autori” nell’ambito della formazione degli adulti; e, infine, la distanza connessa alla memoria che “riveste un’importanza cruciale quando la scrittura si rivolge a persone in fragilità esistenziale”, dove “diventa cura anche il movimento tra ricordare e dimenticare”.

Raccogliendo, in conclusione, i sassi delle “parole che diventano pietre per edificare dimore da abitare” unitamente ai semi delle parole fragili  “bisognose di cura per il loro fiorire”.

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LA RICAMATRICE DI PAROLE. Uno sguardo sulle scritture e sull'esperienza di volontaria in carcere di Athe Gracci - di Caterina Benelli - Laura Martini - Ilaria Mavilla


Caterina Benelli – Laura Martini – Ilaria Mavilla

LA RICAMATRICE DI PAROLE

Uno sguardo sulle scritture e sull'esperienza di volontaria in carcere di Athe Gracci

(Quaderno di Anghiari - Serie Giallo N. 5 - Mimesis, 2020)

 




Recensione di Giorgio Macario

 

 

Se ad Anghiari le Giornate Culturali 2020 saranno dedicate all’incontro e ad intrecciar parole lo dobbiamo anche ad Athe Gracci che, con il titolo del testo a lei dedicato -in fase di stesura mentre progettavamo le Giornate anghiaresi- ha in qualche modo orientato la denominazione dell’evento.

Athe Gracci, all’indomani del suo pensionamento da insegnante, comincia la sua attività volontaria presso la Casa Circondariale di Pisa, concretizzando man mano il suo ruolo di “pioniera della facilitazione alla narrazione autobiografica in carcere.” Utilizzando più che un metodo -come ci dice Caterina Benelli nell’introduzione al quaderno- “una postura, una modalità di stare in relazione con l’altro vulnerabile e con la parte più vulnerabile di se stessa che, con una rara empatia, riesce a connettersi e a costruire relazionalità.”

Ma perché definirla “ricamatrice di storie sfilacciate? Perché tutto è iniziato dal ricamo.” Come lei stessa ha testimoniato: “‘Vi insegnerò a ricamare, dissi a queste donne che tutto si sarebbero aspettate meno che questo programma.(…) L’impatto fu stupendo man mano che i minuti passavano gli sguardi mi diventavano amici.”

E con il ricamo e la scrittura di sé declinata nelle svariate possibili sue articolazioni (tramite narrazioni e scritture di racconti, poesie, lettere e romanzi autobiografici) sono molte decine le persone che hanno potuto trovare un senso al proprio periodo di reclusione, riannodando spesso, tramite lei, i rapporti con i propri familiari.

Dopo la parte introduttiva, il volume prosegue con il contributo di Ilaria Mavilla, centrato da un lato sulle innumerevoli corrispondenze che rappresentano la forma più diffusa di relazionalità in carcere, concretizzandosi in lettere ai familiari, cartoline e biglietti di ogni genere: e Athe Gracci ha conservato centinaia di lettere che colpiscono in particolare per la reciprocità della relazione. “Athe non esitava a raccontare di sé, a condividere con i suoi ragazzi ricordi del proprio passato, dalle sofferenze della guerra a quell’emigrazione, fino al presente con frequenti accenni al marito, ai familiari a lei cari, ai viaggi, e ai suoi libri.” D’altra parte, l’analisi di decine di scatoloni colmi di centinaia di fotocopie contenenti tracce delle esistenze che hanno intrecciato la sua, portano Mavilla a scoprire “una donna fiera, testarda, ironica e malinconica, introspettiva e al contempo estroversa, tesa verso il fuori e verso l’altro.”

In conclusione è la nipote, Laura Martini, a tracciare un ricordo di Athe e delle storie passate dalla sua stanza, del suo salottino che “era anche luogo privato della sua scrittura”, del suo modo di essere insegnando, scrivendo ed accogliendo.

Ed è nel progetto della “Stanza di Athe Gracci” come tributo connesso all’intestazione a lei fatta del Centro Nazionale di Ricerche e Studi Autobiografici della LUA -che sarà presentato proprio al termine delle Giornate Culturali LUA 2020- che si trova la risposta alla domanda angosciosa che si poneva sui suoi carteggi “ma che ne farete dopo di tutta questa roba?” Questo suo dubbio angoscioso -ci dice la nipote di Athe-  “scompare se le lettere, gli appunti, i ricordi, le foto e le confessioni non rimangono chiusi in una scatola ma diventano materiale vivo, che passa di mano in mano e che apre porte sconosciute.”