domenica 15 ottobre 2017

DUCCIO DEMETRIO - Realtà e finzione in autobiografria

E' la prima volta che ospito sul mio blog uno scritto dell'amico e collega Duccio Demetrio, fondatore e animatore della Libera Università dell'Autobiografia, che rispondendo alla richiesta di documentare  il suo intervento su 'Realtà e finzione in autobiografia' al recente Festival dell'Autobiografia di Anghiari, ha legato il tema trattato a quanto accaduto in questi giorni. La vicenda  riguarda Loris Bertocco e la morte assistita cui è andato incontro con grande dignità. 
Mi è sembrato importante consentire fin da subito la diffusione di questo scritto per rendere omaggio  alla sua testimonianza di rara lucidità.

Duccio Demetrio
REALTA’ E FINZIONE IN AUTOBIOGRAFIA

A poco più di  un mese dal Festival dell’ Autobiografia.

Oggi è 12 ottobre.

Credo che in molti abbiano letto su la Repubblica di oggi le ultime parole di Loris Bertocco, che ha “dovuto” scegliere di affidarsi alla morte assistita, naturalmente non in Italia. Quando ogni speranza, l’energia vitale già precaria non potevano concedergli più alcun domani. “Mi è difficile immaginare – scrive nel saluto – il resto della mia vita in modo minimamente soddisfacente, essendo la sofferenza fisica e il dolore diventati per me insostenibili e la non autosufficienza diventata per me insopportabile”. In un tragico paradosso,  poiché l’ arbitrio libero della scelta non dovrebbe avvenire sotto un’ urgenza dovuta a costrizioni che ci impediscano il diritto alla vita. Tanto più, come è stato per Loris - e non soltanto per lui -, ancora nella lucidità di una coscienza che gli ha consentito di lasciarci una scrittura autobiografica esemplare. Non soltanto per la realtà dei fatti personali esposti - rispecchiati in chi lo conobbe - che ben poco affidano al sospetto che si sia in presenza di qualche tentazione a fingere, alterando talune verità: del corpo straziato, della cecità, dell’ abbandono. Nulla di tutto ciò può darsi: quando, come scrisse pochi giorni prima della iniezione letale: “Vi sono situazioni che evolvono inesorabilmente verso l’ insostenibilità”. E queste vanno rese note, tanto più se in gioco vi siano persino responsabilità pubbliche che concorrono ad acuire le disumanizzazioni  del tempo presente. Denunciate e vissute da quest’ uomo in prima persona. Con dignità, senso morale, nella sfida durata quarant’anni con irrisolvibili problemi superati fino ad un certo punto. Fino al commiato scelto in questo mese di ottobre, la cui luminosità irreale, in una solarità sfrontata per lui, per una moltitudine di sofferenti di cui non sappiamo, invece non sembra voler consegnarci all’autunno.


La lettera  inizia così: "Sono nato a Dolo il 17 giugno del 1958. Il 30 marzo 1977 - frequentavo l’ Istituto tecnico, avevo 18 anni – ho avuto un incidente stradale: un’ automobile mi ha investito mentre ero in ciclomotore. C’è stata una frattura delle vertebre C5-C6 e sono rimasto completamente paralizzato. Purtroppo fin da ragazzo ho avuto anche problemi di vista. Dal 1987 sono stato classificato ipovedente; dal 1996 cieco assoluto. Tra le cose importanti della mia vita c’è stata una notevole sensibilità per i problemi sociali e politici. Nel 1990 sono diventato consigliere comunale per i Verdi per alcuni anni nella città Mira […] Nel 1996 ho conosciuto Annamaria, che è diventata mia moglie nel giugno del 1999 […] La situazione complessiva ha portato nel 2011 mia moglie a non riuscire più ad affrontarla. Il fatto che dovesse cercare faticosamente quasi da sola la soluzione ai problemi quotidiani l’ha portata ad una decisione estrema, cioè la richiesta di separazione […] Sono convinto che se avessi potuto usufruire di assistenza adeguata avrei vissuto meglio la mia vita, soprattutto questi ultimi anni, e forse avrei rinviato un po’ la scelta di mettere volontariamente fine alle mie sofferenze. Ora è arrivato il momento. Porto con me l’ amore che ho ricevuto e lascio questo scritto augurandomi che possa essere d’aiuto alle tante persone che stanno affrontando ogni giorno un vero e proprio calvario […] Proprio perché amo la vita credo che adesso sia giusto rinunciare ad essa."

Uno scritto autobiografico, il suo. Limpido, sferzante, autenticamente connesso con la tradizione classica, migliore e pedagogica – ogni autobiografia è un’ esperienza del resto di formazione - di un genere che, ben prima di essere letterario, è narrativo. Poiché se non tutti possono permettersi di affinare l’ arte del racconto, tutte e tutti invece - anche con poche righe - sono in grado di esprimere chi siano stati, come abbiano vissuto, che senso abbia avuto per loro, per noi, una vita di pochi anni o lunga fino all’eccesso. E’ una lettera contrassegnata da un lascito morale inequivocabile, che percorre la realtà “vera” del suo passato, della sua resistenza a non essere sconfitto. A tratti addolcita dalla gratitudine verso chi lo aiutò a non smarrire, nelle sue condizioni, il filo di un legame fortemente intrecciato a scelte doverose nell’arco di anni fattisi sempre meno ancora possibili. Con gli altri, con il bisogno tenacemente perseguito di sapere e di lottare non soltanto per sé. Loris ci lascia una lezione di realismo autobiografico assoluto. Forse, chissà, occorre giungere al crinale della morte o averlo più volte percorso, sia essa cercata oppure attesa ad occhi ben aperti, per scrivere le torture della propria vicenda come lui ha saputo. Nel coraggio, nella più disarmata rassegnazione, nella rivolta contro un destino che egli seppe e poté, mai da solo, piegare alla propria volontà di continuare a respirare nel risveglio doloroso, ma ottimista, dei giorni. Possiamo, in autobiografia, adottare stili e sottogeneri diversi per raccontarci; possiamo alterare qualche ricordo non per mentire, ma per consentirgli di apparire più letterario e convincente; o, ancora, potremo cercare di apparire quel che avremmo voluto essere. In tutti i casi, il canone autobiografico non verrà tradito o eccessivamente manipolato quando alcune note esistenziali scandiscano le pagine in trasparente evidenza. Quando compaiano date salienti, evocazioni di luoghi ( qui: “Abbiamo ampliato e ristrutturato la mia vecchia casa;…”); quando  figure determinanti vengano evocate con gratitudine (qui: “Mio padre è mancato, mia madre ha avuto problemi di salute e non ha potuto darmi la sua assistenza come nei periodi precedenti”). O quando nella storia irrompe l’evento che ti tronca un avvenire promettente; la scoperta determinante della amicizia, dell’amore, della solidarietà. E quindi, così come ci sono i fatti, comprovabili da chi ti conobbe ( senza i quali, un’ autobiografia può ridursi soltanto ad un dialogo  con se stessi: disincarnato, consolatorio, inafferrabile); anche i sentimenti diventano tali, se tracciano in profondità i fili conduttori di una esistenza diversa, diversamente capace di sopportare l’ infelicità, che è simile tuttavia a quella di ognuno di noi. Le parole secche, la concisione sintattica, l’ eco inequivocabile di un’ oralità affidata alla penna altrui, gli accenni essenziali per dirsi ed essere intesi, scorrono rapidamente e celebrano il compito ancestrale della scrittura. In che altro consiste se non nell’essere riusciti a incidere su una pietra, una pergamena, un foglio o uno schermo, il disegno di una storia, che non ha più tempo per soffermarsi su particolari inutili? Anche se, probabilmente, il temperamento di Loris avrebbe voluto lasciare spazio alle “ali della poesia”, avrebbe voluto avere più tempo per lasciarci indizi di quanto sia riuscito a vivere momenti di gioia, di entusiasmo, di godimento. Ma, egli, ha dovuto scrivere il proprio memoriale in forma d’epitaffio, sacrificando la bellezza, parole più tenere e amabili. In tale atto definitivo ha potuto solamente gridare senza enfasi la propria autosufficienza, grazie tuttavia all’aiuto di uno scrivano di cui non conosciamo il nome. Il cui soccorso prestato, ben oltre le quotidiane incombenze non possiamo che ringraziare. Leggendo la lettera nella sua breve totalità (reperibile in internet), ci imbattiamo in una testimonianza e in un testamento. Un’ autobiografia può essere lunga 5 pagine o 500, ciò che conta è che sia concepita – come questo estremo saluto – al fine di farci intendere l’ esistenza di una  trama tessuta con la ferocia della solitudine che Loris non ci sbatte in faccia; con le cose inequivocabili, con gli incontri fatali e le situazioni del mondo reale capaci di dettarci il nostro destino. In una lotta arcaica tra la necessità, l’irruzione del caso, la forza di reagire con la volontà di esistere. Eppure, la sua realtà, il suo passato, il suo presente ormai ridotto a poche ore ancora, hanno saputo comunque protendersi verso bagliori di finzione. Qualora si intenda tale registro narrativo non nei modi scaltri  della menzogna ad effetto, della fantasticheria avventurosa, dell’immaginario rocambolesco, della evasione sfacciata dalla storia personale.


Loris Bertocco agisce il suo realismo finzionale (l’unico dignitoso e nobile in autobiografia) nel proiettarsi e proiettarci verso il futuro. Nel crederci, nella sua ora ultima affidandolo ad altri, a noi che restiamo:

Il mio impegno estremo, il mio appello, è adesso in favore di una legge sul “testamento biologico” e sul “fine vita […] Ringrazio tutti coloro che mi sono stati vicini”  e che proseguiranno la battaglia per il diritto ad una vita degna di essere vissuta e per un mondo più sano, pulito e giusto”. Loris ha saputo dimostrarci che non vi può essere separazione tra realtà e finzione quando l’ autobiografia trasudi verità umana e umanità; bensì riconciliazione, alleanza, fecondità creativa. Quando la seconda protagonista si mostri veicolo e viatico dei nostri desideri realizzati o da consegnare a chi resta come sogni capaci di produrre realtà e storia di libertà, emancipazione, giustizia civile per tutti.

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