Maria Gaudio
LA CURA
NELL’ACCOMPAGNAMENTO AUTOBIOGRAFICO
(Quaderni di Anghiari - Serie Blu N. 3 -Mimesis, 2020)
Recensione di Giorgio Macario
Maria Gaudio, di formazione filosofica e psico-pedagogica si è specializzata in Psicopedagogia della famiglia e perfezionata in Psicologia Clinica della Perinatalità. Ma, soprattutto, l’autrice è docente della LUA dove si è diplomata e specializzata in consulenza autobiografica.
Per questo non deve stupire se questo
quaderno -e non libro, ci tiene subito a precisare l’autrice- si apre con un
frammento di autobiografia che àncora alla propria infanzia, due parole
irrinunciabili per l’aula Klinè, percorso di specializzazione nella scuola
triennale ‘Mnemosyne’ della LUA: abitare e distanza. L’abitare
dei continui riferimenti dei primi anni di vita di Maria all’interrogativo su
dove si abitasse davvero (“Ora abitiamo qui?”), e la distanza osteggiata per
molto tempo come condizione contraddittoria fra stare e andare, fino ad una
parziale riconciliazione connessa ad una rima scoperta fra distanza e danza.
Prendono avvio da questi riferimenti autobiografici
le osservazioni preliminari sulla comunità della LUA e su Klinè nel percorso
triennale della scuola e le successive tre parti del quaderno orientate dalle
calviniane ‘città invisibili’ di Eufemia, Tamara, Despina e Zaira.
La scrittura di sé come possibilità
auto-formativa e auto-curativa porta a stare, nell’ambito della LUA e per dirla
con Bauman, ‘individualmente insieme’, immaginandosi individui che rifuggono,
però, da qualsiasi solipsismo. Il percorso di Klinè, inaugurato da Duccio Demetrio e dalle sue riflessioni
sulla scrittura clinica, che rappresentano un riferimento costante lungo tutto
il testo, viene condotto dall’autrice a partire dal 2017 e viene descritto nei
suoi cinque laboratori teorico-pratici che conducono ad una relazione di cura denominata
‘accompagnamento autobiografico-clinico.’
‘Amare la distanza’ è indicazione
inappropriata solo in apparenza, relativamente
al passaggio auspicato dalla cura di sé all’aver cura dell’altro. Gli elementi
caratterizzanti l’impresa autobiografica e la molteplicità degli aspetti
inerenti la cura dominano la prima parte del testo. Nella seconda parte è la
scrittura ad emergere come elemento ‘terzo’, vero e proprio attore fra il
consulente-accompagnatore e il narratore-autore; le situazioni che potranno
essere affrontate mediante la scrittura non dovranno essere dichiaratamente
patologiche -e quindi di competenza dell’ambito medico o terapeutico- ma si
andrà comunque incontro a “disagio, fragilità, marginalità, impedimenti motori,
situazioni traumatiche, di perdita, di solitudine, di smarrimento.”
La scrittura autobiografica-clinica,
quindi, pur non rivolgendosi alle malattie ma “alla fragilità che fa parte
della vita”, richiede altresì “una formazione alla clinica della scrittura
autobiografica”, che, in un’ottica di accompagnamento, fa diventare clinica la
stessa scrittura autobiografica.
L’ultima parte viene quindi dedicata
all’esplorazione di ulteriori distanze, come quella fra parola detta e
parola scritta, dove è certamente quest’ultima ad essere “la specificità della nostra
clinica e della nostra cura”; o ancora la distanza dello
sdoppiamento e della bi-locazione cognitiva come “nozione centrale nella
riflessione di Duccio Demetrio, ripresa e approfondita da numerosi altri
autori” nell’ambito della formazione degli adulti; e, infine, la distanza
connessa alla memoria che “riveste un’importanza cruciale quando la scrittura
si rivolge a persone in fragilità esistenziale”, dove “diventa cura anche il
movimento tra ricordare e dimenticare”.
Raccogliendo, in conclusione, i sassi delle
“parole che diventano pietre per edificare dimore da abitare” unitamente ai
semi delle parole fragili “bisognose di
cura per il loro fiorire”.
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