domenica 15 dicembre 2019

SPUNTI AUTOBIOGRAFICI DALLA CONFERENZA DI MASSIMO RECALCATI SU 'LA PROFESSIONE DI PSICOANALISTA'



SPUNTI AUTOBIOGRAFICI DALLA CONFERENZA DI MASSIMO RECALCATI
SU ‘LA PROFESSIONE DI PSICOANALISTA’
(Genova, Palazzo Ducale – 11 dicembre 2019)

                                                                                                 di Giorgio Macario



Perché più di un migliaio di persone, fra le quali il sottoscritto, stanno comodamente sedute, ma in molti casi scomodamente assiepate, intorno ad un professionista che parla della psicoanalisi come di una professione non convenzionale? Perché Massimo Recalcati non è uno psicoanalista qualunque, mi si potrebbe rispondere; o anche perché è molto conosciuto e stimato, qualcun altro potrebbe sostenere; oppure perché scrive libri non solo comprensibili, ma anche gradevoli.

Tutto vero. Ma ciò che penso affascini di più, e per quanto mi riguarda questo è ciò che mi spinge a cercare di essere presente ai suoi incontri pubblici anche al termine di giornate di lavoro abbastanza impegnative come l’odierna,  è la sua capacità di parlare agli altri partendo dalla sua personale esperienza della vita magistralmente intrecciata con i pensieri e le riflessioni di psicoanalisti, di filosofi e di studiosi che alla stessa vita hanno cercato di restituire un senso più compiuto.

E’ per questo che, nel tentativo di restituire una piccola parte di quanto mi è stato concesso ascoltare in quasi un’ora di conferenza da lui tenuta quest’oggi al Palazzo Ducale di Genova, non riesco a far di meglio che condividere, con chi avrà la voglia e la pazienza di leggere questo scritto, un parziale resoconto di quanto da lui riferito, resoconto basato su appunti scritti in piedi appoggiato ad un muro , intrecciandolo con alcuni passaggi della mia personale esperienza di vita.

A partire dal primo concetto espresso sulla professione dello psicoanalista come mestiere impossibile, citando Freud, alla stregua dell’arte politica del governare e dell’arte pedagogica dell’educare. Come non condividere un tale avvio che mi ha riportato immediatamente al mio primo testo significativo su “L’arte di educarsi” che, ormai venti anni fa, citava  nell’incipit “Educare è un compito impossibile in un mondo così complicato”, per poi caratterizzare l’educare anche come una necessità, una missione, un impegno sociale, una competenza naturale e infine una professione?

Ma come se non bastasse, ecco subito un secondo riferimento capace di tuffarmi nel passato remoto dei primi anni della mia professione di educatore di comunità per adolescenti: in realtà, dice Recalcati, fare lo psicoanalista può anche essere rappresentato come una sorta di ‘non fare niente’, che Lacan avvicina alla tradizione Taoista. Come dimenticare le parole di molti ragazzi ospitati in comunità: “Ma davvero ti pagano per stare qui con me? Stai con me, non fai niente e ti pagano anche?” per poi concludere: “magari anch’io da grande farò l’educatore…”.

Ed è a questo punto che il racconto di Recalcati diventa profondamente autobiografico, a partire dalla affermazione di Lacan che non si diventa psicoanalisti per vocazione, bensì accade un incidente di percorso e lo si diventa come piano ‘B’. Dal percorso legato alle aspettative del padre affinchè diventasse floricoltore, in qualità di primo maschio della famiglia, Recalcati riferisce di essere passato ben presto all’aspirazione di diventare poeta (riuscendo comunque a portare alla maturità un lavoro sulla poesia friulana di Pasolini) e, una volta realizzato di non avere un simile talento, filosofo. Buoni maestri e due borse di studio post laurea per l’Università di Pisa e di Francoforte sembravano aver già tracciato la via maestra di una possibile carriera universitaria, quando il suo personale ‘incidente di percorso’ gli si propone davanti agli occhi con la prorompente intensità di un incidente d’auto mortale che lo vede come primo soccorritore. Una figlia sopravvissuta che dice alla madre morta: “mamma perdonami, ti ho uccisa”. Lo spalancarsi di un abisso nel quale si sente travolto dall’angoscia che lo porta a porsi la domanda di una vita: proseguire o cambiare?

L’analisi personale (e sentendo della sua lunghezza ultra-ventennale il mio pensiero è corso al saggio di Freud  Analisi terminabile e interminabile’ che avevo giusto letto per la prima volta in prossimità della conclusione della mia psicoterapia psicodinamica) e l’interesse per l’inconscio testimoniano quindi la solida verità che si diventa psicoanalisti perché si sta male, e si è tenuti non solo a conoscere il proprio inconscio, ma occorre ‘diventare’ il proprio inconscio. Tenendo presenti diverse affinità di questi percorsi con le esperienze spirituali, citando le ‘Confessioni’ di Sant’Agostino.

Chissà se qualcosa di simile, penso a questo punto, mi è capitato nella scelta post-diploma scientifico che mi ha portato a preferire gli studi umanistici, sociali e psicologici alle aspettative materne che mi volevano, in quanto primogenito maschio, ingegnere, o alla capacità attrattiva dell’impegno di mio padre come stivatore e direttore di sbarchi e imbarchi nel porto di Genova, dopo diversi anni della mia adolescenza passati a condividere con lui piccole parti del suo impegno.

Ma è il ‘tripode freudiano’, citato da Recalcati come base della professione di psicoanalista, a distogliermi dai miei pensieri:  sapere tecnico, analisi personale e supervisione appaiono come altrettante architravi dell’impegno professionale. Un richiamo alla razionalità sistematizzante, subito accompagnato da un risvolto profondamente emotivo che attraverso la citazione di Fabrizio De André, poeta genovese (‘Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior’), richiama la passione dichiarata per le storie dei pazienti, una passione per ciò che è storto, non è dritto, è imperfetto. E come non riconoscere nella successiva affermazione: “Amiamo le cause perse, perché siamo cause perse” una sensibilità molto particolare? In un lampo, decenni di impegno in ambito educativo, sociale, psicologico e psicosociologico, ma anche formativo e giuridico, si prestano ad essere indagati con una nuova chiave di lettura.

Ed è così che le successive affermazioni sull’importanza dell’onorare la parola, dell’ascoltare e dello stare in silenzio per poterlo fare in maniera adeguata, onorando le parole di chi parla con l’assenza di giudizio di un atteggiamento non valutante, non possono che richiamarmi le molte assonanze con il patto autobiografico che nella Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari si applica nell’ambito della scrittura di sé.    
            
Per giungere, quindi, alla significativa conclusione con un aneddoto, tratto dalla biografia di Freud scritta da Ernest Jones, in merito ad una conferenza di Freud negli Stati Uniti nella quale un disturbatore si mette a rumoreggiare e viene ripreso dal rettore; questo continua imperterrito  e il rettore lo fa accompagnare fuori dalla sala scortato dagli uscieri; ma ancora si sentono colpi sulla porta della sala e il rettore, spazientito, appare determinato a chiamare la polizia, quando Freud interviene per dire ‘no, facciamolo entrare e facciamolo parlare’, intendendo: avrà delle ragioni per protestare così tenacemente e dovremmo ascoltarlo, come dovremmo fare con le parti di noi che faticano a farsi ascoltare. Le voci esterne e quelle interne a questo punto si fondono e mi avvio all’uscita pensando che è proprio l’essere capaci di ascoltarci fino in fondo che ci può aiutare ad ascoltare gli altri.



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