giovedì 23 luglio 2015

IL COMANDANTE FACIO E IL GIOVANE PARTIGIANO



Il caldo è veramente opprimente, dappertutto. Ma non qui, oggi.
Qui ci sono gli alberi, alti, con le loro fronde estese che proteggono questo angolo di montagna, poco oltre gli 800 metri di altitudine.
E’ qui, ad Adelano di Zeri, in Lunigiana, che 71 anni fa Dante Castellucci, il Comandante Facio, venne fucilato da un gruppo di partigiani.
Ingiustamente accusato di azioni illecite scelse, pur avendone la possibilità, di non sottrarsi ad una sorte così infausta.
Era il 22 luglio del 1944, mancavano nove mesi alla Liberazione dell’Italia intera, e con la sua morte molti dei giovani che erano insieme a lui si dispersero, scegliendo strade diverse.
Mio padre, Marzio Macario, era uno di loro.
Non si rassegnò mai al pensiero che il suo primo Comandante potesse essere colpevole.
Me ne ha sempre parlato come di una figura carismatica, a capo di un battaglione di area comunista, il Picelli, ma al contempo animato da idealità libertarie.
Un uomo giusto ma fermo, un comandante che per integrità morale e per spirito comunitario nella condivisione totale delle privazioni della guerra, spesso veniva paragonato da mio padre alla figura di Aldo Gastaldi, detto Bisagno, morto anch’egli –non a caso- in uno ‘strano’ incidente all’indomani della Liberazione.

Un uomo lo si stima anche per le eredità che lascia. E se dovessi dire qualcosa in più di una persona che non ho mai conosciuto, perché ucciso 12 anni prima che io venissi al mondo, del Comandante Facio potrei parlarne solo tramite le parole di mio padre che così sintetizzava la vita partigiana di quei mesi: “Il coraggio e la temerarietà erano sempre presenti. Si combatteva con il cuore, ma anche con la mente e Facio era maestro e mentore per tutti coloro che si avvicinavano alla banda.”
Anche il nome partigiano di mio padre, Terry, è nato dal fatto che lo stesso Facio gli diceva sempre più spesso –forse per la sua giovanile esuberanza- “Sei terribile!”.
E molte delle successive vicissitudini che hanno accompagnato la vita di mio padre nel suo ‘decennio rosso fuoco’, dalla partecipazione all’insurrezione che liberò la città di Genova all’assumere il ruolo di responsabile del CLN per la zona di San Teodoro, dal favorire l’invio delle armi ai combattenti antifranchisti spagnoli all’esilio forzato in Svizzera, portano tutte il segno indelebile della lezione di vita appresa in quei mesi trascorsi in montagna a combattere per i propri ideali.
Per questo oggi sono e siamo qui, a testimoniare un doveroso tributo ad una vita barbaramente spezzata in giovanissima età.

In attesa di una Medaglia d’Oro al Valor Militare più volte ipotizzata e mai assegnata, per colui che nel marzo del 1944 guidò per due giorni la resistenza ai tedeschi nella battaglia del Lago Santo, quando con nove compagni riuscì a tenere testa all’assalto di oltre 80 militari nazisti.

Il giorno in cui questa ferita sarà sanata, potrò infine recarmi sulla tomba di mio padre e informarlo sull’esito dell’ultima battaglia che come giovane partigiano avrebbe voluto condurre per il suo Comandante.

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